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Stato, imprese e capitali che mancano

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Stato, imprese e capitali che mancano

Stiamo assistendo a un’ondata di fusioni, acquisizioni, riorganizzazioni e ristrutturazioni di imprese italiane. Fiat Chrysler Automobiles- scisse Cnh, Ferrari e Magneti Marelli - cerca una fusione con Renault; pur con un avvio travagliato, Luxottica si fonde con Essilor e Fincantieri cerca il controllo di Stx.

Ilva è venduta ad ArcelorMittal; Mediaset cede Ei Towers, compra una quota in ProSieben e conferisce le attività in una holding olandese; Lactalis, dopo Parmalat, si espande nel caseario; nella moda, Kering e Lvmh fanno shopping da anni; Unicredit cede Finecobank e Pioneer per giocare la partita Commerzbank; Atlantia fonde autostrade e aeroporti e acquista il controllo di Abertis; Cdp e Salini cercano di aggregare le imprese nel settore delle costruzioni; Conad compra le attività italiane di Auchan; Esselunga riorganizza la proprietà; Telecom Italia cerca di riorganizzarsi con una fusione con Openfiber nella rete e con Vodafone nelle torri; e Alitalia è alla ricerca dell’ennesimo partner.

In questo scenario c’è un filo comune: la profonda trasformazione del sistema economico alla quale le nostre imprese devono adattarsi. E in fretta.

Oggi appena il 29% del Pil mondiale viene prodotto dai Paesi del G7 (fra i quali l’Italia); 30 anni fa era il 51%. Quindi, la dimensione del mercato rilevante per ogni impresa (fornitori, clienti, concorrenti e consumatori) è diventata globale. Internet e la rivoluzione tecnologica hanno aumentato ulteriormente l’integrazione dei mercati e la concorrenza, azzerando la distanza fisica tra le imprese e con i consumatori, e uniformando gusti e standard. La crisi del 2008 ha creato una grande capacità inutilizzata, specie in Europa, che costituisce il presupposto per un’ondata di fusioni e acquisizioni in cui il più forte assorbe il più debole e le risorse si spostano verso i settori vincenti. È un processo inarrestabile: barriere e sovranismi possono solo rallentarlo, rendendolo più costoso.

Il nostro sistema industriale è prevalentemente di piccole/medie dimensioni, leader di nicchia e manifatturiero. Però le nicchie sono sempre più difficili da difendere; focalizzazione sul manufatto e piccole dimensioni limitano le opportunità di creare valore con la tecnologia e nei servizi dove c’è maggiore valore aggiunto (pensiamo ad Amazon, Netflix, Booking); e molte nostre aziende sono ormai a metà del guado: troppo grandi e troppo esposte alla globalizzazione per essere di nicchia, ma ancora troppo piccole per competere efficacemente.

Che cosa si può fare? Per prima cosa, invitare gli imprenditori a combattere la propria ossessione per il controllo e a separare la proprietà dalla gestione, lasciandola ai manager: la crescita dimensionale è troppo spesso incompatibile con il mantenimento del controllo sia gestionale che proprietario (vedi Luxottica e Mediaset), e l’imprenditore che non lo capisce rischia di perdere entrambi (tanti i casi nella moda, alimentare o elettrodomestici).

In un processo di aggregazioni necessariamente transfrontaliere è fondamentale che lo Stato sostenga le imprese italiane (vedi Fca o Fincantieri), ma non ostacoli gli investimenti esteri in Italia per un nazionalismo di facciata (vedi Alitalia) o la riorganizzazione di un’azienda, se questa la rende più efficiente, per una difesa preconcetta del posto di lavoro in specifiche aree (vedi Whirlpool che in Italia mantiene comunque sei centri produttivi e 5.500 dipendenti). Ma sostenere le imprese nazionali non significa doverne essere azionista: lo Stato vuole entrare in Alitalia sul modello di Air France, ma Iag (British Airways e Iberia) e Lufthansa competono benissimo senza azionisti pubblici; e vuole entrare con Cdp in Telecom sul modello di Orange, ma Telefonica e Vodafone sono competitive senza lo Stato socio. E chi meglio degli Stati Uniti sostiene la propria industria? Ma il governo federale non detiene partecipazioni.

Infine, il processo di crescita e di aggregazione necessita di capitali ingenti. Ma il sistema bancario italiano è fragile e la regolamentazione riduce la sua capacità di assumere rischi. Con la crisi finanziaria, le banche di investimento europee hanno praticamente ceduto il mercato a quelle americane. La Borsa è asfittica e il mercato dei corporate bond troppo poco liquido per finanziare grandi fusioni. E anche negli Stati Uniti, nonostante mercati finanziari ben più sviluppati, un ruolo fondamentale lo giocano private equity e private debt. Ma da noi rappresentano una quota risibile dei finanziamenti per mancanza di investitori. Ci sono una cultura e una regolamentazione da cambiare. Il sottosviluppo del nostro mercato finanziario è un “fallimento del mercato” che definisce e giustifica un ruolo per la Cdp. Che però deve immobilizzare un ingente capitale in partecipazioni che non gestisce, ma semplicemente custodisce per conto dello Stato (Eni, Terna o Snam) al solo scopo di ridurre artificiosamente un po’ di debito pubblico.

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