Quasi un anno e mezzo ormai. Tanto è trascorso dall’ingresso di Mifid 2 i cui impatti sul mondo degli investimenti restano ancora tutti da valutare, nel momento in cui i clienti stanno iniziando a ricevere gli attesi (e temuti) prospetti sui costi legati alle commissioni sui prodotti di risparmio. Qualche certezza inizia però già ad apparire in un aspetto collaterale, ma non per questo di minore importanza: la ricerca finanziaria ha subito una battuta d’arresto, in Italia come in altri Paesi d’Europa, anche a causa dell’introduzione della direttiva. In diciotto mesi è diminuito il numero degli analisti, quello dei report pubblicati e in generale si è ridotta la copertura sulle società quotate a Piazza Affari.
L’evidenza di un fenomeno che non coglie di sorpresa gli addetti ai lavori sta nei numeri di uno studio che Assosim, l’associazione degli intermediari dei mercati finanziari, presenta oggi in occasione dell’annual general meeting Icsa (International Council of Securities Associations, federazione che riunisce le principali associazioni di categoria mondiali). A fronte di un numero degli analisti che coprono titoli italiani in calo dell’8,8% dalle 480 unità del 2017 alle 438 del 2018, che «porterà con sé nel lungo periodo una perdita di professionalità essenziali per lo sviluppo del mercato finanziario», si registra infatti una conseguente diminuzione del volume delle ricerche di tipo fondamentale.
Il fenomeno coinvolge in apparenza soprattutto le blue chip, visto che il calo della produzione di report nell’ultimo anno è stato in questo caso pari all’11,45% se si fa riferimento ai broker nazionali e al 6,52% quando si considerano gli esteri, contro una riduzione media che per l’intero listino si è fermata al 4,69%. Diventa però in realtà ben più rilevante (e pericoloso) per le small e mid cap, nei confronti delle quali la ricerca resta infatti residuale e, tranne l’eccezione del segmento Star, quasi esclusivamente appannaggio degli attori italiani.
Lo studio Assosim mostra infatti come il numero di studi dedicati alle «piccole» di Piazza Affari continui a essere inferiore al 10% rispetto al totale e la vicenda diventa sempre più evidente quando si considera Aim Italia, segmento in cui il numero di report, pur in marginale crescita, a stento riesce a superare il 2 per cento. Ancora più grave, sotto questo aspetto, è il fatto che nel frattempo sia aumentato, da 81 a 84, il numero delle società che non hanno copertura degli analisti.
La questione gira essenzialmente attorno al tema dei costi. Tecnicamente il problema è infatti legato a un concetto noto nel settore come unbundling, ovvero la separazione delle spese sostenute per la ricerca effettuata sugli investimenti. Fino a un anno e mezzo fa queste ultime venivano “sovvenzionate” dagli stessi clienti attraverso le commissioni generate attraverso l’intermediazione e l’esecuzione degli ordini, creando un potenziale conflitto di interessi in capo allo stesso gestore che poteva caricare più commissioni del necessario per finanziare la stessa ricerca. Lo «spacchettamento» dei costi stabilito da Mifid 2 ha di sicuro favorito maggiore trasparenza, al tempo stesso però ha finito per mettere i bastoni fra le ruote di chi ha deciso di accollarsi i nuovi oneri senza passarli alla clientela, e i risultati sono quelli sopra descritti: i budget per la ricerca sono stati drasticamente ridotti, non soltanto in Italia.
E più in generale si è creata una netta divaricazione fra chi, come i pochi grandi player globali, è riuscito a ovviare al problema facendo leva sulle economie di scala che sono in grado di produrre (offrendo talvolta servizi a prezzi stracciati), e chi al contrario fatica a restare a galla su un mercato simile ed è costretto a tagliare gli investimenti. Queste ultime realtà, tipicamente i broker di dimensione ridotta e le case di ricerca indipendenti, sono appunto quelle che in genere seguono le società di taglio medio-piccolo il cui sbarco (prima) e cammino (poi) in Borsa si cerca di favorire da tempo, soprattutto nel nostro Paese, con conseguenze rilevanti già nell’immediato. Minore ricerca contribuisce infatti, secondo Assosim, «ad accrescere nel tempo il deficit informativo sugli emittenti a minore capitalizzazione», anche quando questi registrano performance economico-finanziarie positive.
Senza la necessaria informazione si riduce poi anche l’interesse (già non elevato) degli investitori istituzionali sulle small cap che, diventando a loro volta ancora più illiquide, attirano sempre meno l’attenzione del mercato: un vero e proprio circolo vizioso. Un corto circuito che a questo punto non è semplice interrompere, perché occorrerebbe bloccare una macchina già in piena corsa come Mifid 2 e che per quanto riguarda l’Italia, come sottolinea Assosim, «rischia di essere ulteriormente aggravato dallo stallo normativo prodotto dalle modifiche introdotte con la legge di bilancio 2019 alla disciplina dei Pir, che ha di fatto bloccato la raccolta su questi strumenti fondamentali per consentire alle Pmi l’accesso al mercato». Nel nostro Paese, come spesso avviene, piove insomma sul bagnato.
© Riproduzione riservata