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Questo articolo è stato pubblicato il 14 maggio 2013 alle ore 08:49.

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Pochi potrebbero pensare razionalmente che una macchina per imballaggio (realizzata su misura per una grande multinazionale alimentare o della farmaceutica) o una grande nave da crociera (alta come sei piani di un edificio e con a bordo un paio di teatri ed un cinematografo) siano prodotti meno innovativi e complessi di un banale telefono cellulare o di uno dei tanti computer "entry level" fatti serialmente in milioni di pezzi. Ma, per le classificazioni statistiche internazionali, è così. I primi prodotti, infatti, sono beni classificati a "media tecnologia" mentre i secondi sono "hi-tech". Forse è anche per questa ragione che l'Italia non è ritenuta, a torto, una protagonista dell'innovazione.

A ciò si aggiunge il fatto che molte piccole e medie imprese italiane non contabilizzano nei loro bilanci tutta la ricerca e l'innovazione che realmente fanno. Il che ci porta ad avere un rapporto di spesa in R&S/Pil tra i più bassi tra i Paesi avanzati. Sicché si può sentire affermare che c'è più ricerca ed innovazione in Finlandia (dove la quota di R&S sul Pil è tre volte più alta della nostra) che in Italia. Ma non è così. La spinta tecnologico-innovativa della Finlandia sta quasi tutta nella Nokia (e finirà il giorno in cui non ci sarà più la Nokia) mentre l'innovazione dell'Italia non è completamente misurata dagli indicatori statistici tradizionali, del tutto incapaci di cogliere la presenza sul nostro territorio di migliaia di imprese innovatrici di nicchia, che sono spesso leader mondiali nei loro settori e il cui successo non tramonterà tanto facilmente. In altri termini, la forza dell'Italia sul fronte dell'innovazione è largamente sottovalutata, soprattutto nella meccanica.

C'è poi il fatto che le statistiche aggregate sulla spesa del settore privato italiano in ricerca e sviluppo (R&S) sono largamente influenzate dal declino storico o addirittura, in alcuni casi, dalla scomparsa dei grandi gruppi nazionali in settori ad alto tasso di R&S come la chimica-farmaceutica, l'auto e l'elettronica. Ciò non significa che nei campi in cui invece ci siamo specializzati e rafforzati, come la meccanica, non si faccia ricerca ed innovazione ad alto livello. E si tratta spesso di un'innovazione che, pur originando da valori assoluti meno elevati di spesa in R&S, produce poi più risultati concreti sul mercato, in termini di fatturati o di surplus commerciale con l'estero, di quanto non facciano in altri Paesi settori ritenuti, almeno sulla base delle classificazioni tradizionali, più hi-tech di quelli in cui noi eccelliamo.

Se guardiamo ai dati Eurostat sulla R&S dei 5 principali Paesi Ue, non possiamo non sentirci, ad una prima impressione, sconfortati. Infatti, nel 2009 la spesa in R&S del settore manifatturiero italiano (5,8 miliardi di euro) è stata nettamente inferiore a quella della Germania (36,4 miliardi) e della Francia (10,6 miliardi), sia pure maggiore - cosa forse non nota - di quella della Gran Bretagna (4,9 miliardi) oltre che della Spagna (2,7 miliardi). Ma la gran parte della superiorità di spesa in R&S della Germania e della Francia nel manifatturiero rispetto all'Italia è determinata da settori in cui il nostro Paese è divenuto un attore sempre più marginale nel corso degli anni. Nel settore dell'auto, ad esempio, il divario di spesa in R&S tra Germania e Italia è di 14:1.

Nei settori dove invece l'Italia compete con successo sui mercati mondiali la situazione è completamente diversa. Ad esempio, nella meccanica non elettronica, settore dove siamo fortissimi e che potremmo definire hi-mech, l'Italia nel 2009 ha speso in R&S 901 milioni di euro ed è seconda assoluta in Europa, pur a grande distanza, dopo la Germania, che ha investito 4,3 miliardi di euro. Per un confronto, la spesa in R&S delle imprese italiane della meccanica è solo di poco inferiore a quanto abbiano investito nella farmaceutica le imprese inglesi e francesi insieme.

In sostanza, in campo manifatturiero siamo ben lungi dall'essere così in ritardo nell'innovazione rispetto a come ci rappresentano gli indicatori statistici convenzionali, specie se evitiamo di guardarli superficialmente solo in termini aggregati ma li analizziamo per singoli settori. Non si capirebbe altrimenti, ad esempio, come l'Italia possa occupare il secondo posto per competitività dopo la Germania, secondo l'indice Unctad-Wto, nel commercio internazionale dei beni della meccanica non elettronica, settore in cui il nostro Paese vanta il terzo saldo commerciale con l'estero più alto al mondo dopo Giappone e Germania, pari a 66 miliardi di dollari nel 2011.

Pur consapevoli di ciò, non deve tuttavia rallentare l'impegno per un rafforzamento del nostro sistema tecnologico-innovativo in campo industriale. Le imprese devono intensificare le collaborazioni con i centri di ricerca e le Università. Molti nuovi spazi possono aprirsi attraverso una maggiore capacità di intersezione da parte dei settori vincenti, come la meccanica appunto, con eccellenze trasversali che pure esistono in Italia in campi come i materiali avanzati, le nanotecnologie, la fotonica, l'elettronica, la robotica e i droni. Nello stesso tempo, è essenziale che lo Stato supporti di più, attraverso iniziative quali il credito di imposta sulle spese in R&S, lo slancio innovativo che è già presente in vari settori vincenti del made in Italy ed in particolare in quello meccanico.

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