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Questo articolo è stato pubblicato il 25 giugno 2013 alle ore 08:30.

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Rinnovamento oltre la crisi: ecco i semi della ripresa

Dallo scorso gennaio aumentano i segnali in controtendenza rispetto al declino del sistema avviato nel 2008. Negli ultimi quattro anni gli operatori fieristici avevano preferito rispondere alla crisi strutturale concentrandosi sulla riduzione dei costi generali e sulla cancellazione degli eventi strutturalmente in perdita: in attesa di tempi migliori. Poco di significativo era maturato come aggiornamento di eventi offerti e contenimento dell'esubero di spazi espositivi. Di conseguenza la situazione ha continuato a peggiorare, trainata dalla perdurante flessione dell'attività economica complessiva. La messa al margine degli operatori più deboli, impossibilitati a ripianare conti strutturalmente in perdita, ha ridotto a 56 i quartieri in attività (nel 2008 erano 66), risalendo dal Centro-Sud al Nord.

La tendenza ha avuto l'effetto positivo di allargare i bacini d'utenza di chi può investire in strategie di lungo termine. Nel 2013 i calendari mostrano una nuova effervescenza e le iniziative aggiunte in cartellone, anche se non sempre originali, daranno a fine anno un saldo positivo tra entrate e uscite. Ancora più evidente è lo sforzo degli operatori di proiettarsi all'estero. Dai tre storici "esportatori" il numero dei quartieri che internazionalizzano sale quest'anno a otto e le fiere organizzate oltre frontiera sono 114, diffuse in 16 Paesi. Di regola si tratta di fiere business to business e riguardano in misura crescente prodotti e tecnologie non tradizionali del made in Italy, confermando coi fatti che l'esperienza manifatturiera italiana è capace di presidiare anche i mercati d'avanguardia; per pesare il fenomeno si consideri che quest'anno in Italia le fiere b2b sono 274, su un totale di 841 eventi in programma.

La globalizzazione dei mercati rende l'accelerazione dell'export italiano un passaggio non più rinviabile e il sistema industriale chiede di essere accompagnato in modo strutturale da fiere organizzate su misura. Il passo è stato rimandato oltre il ragionevole e non è più differibile. Certamente i principali quartieri italiani sono in ritardo sugli omologhi tedeschi che scelsero oltre trent'anni fa di duplicare all'estero i loro principali eventi, anche costruendo e gestendo quartieri nei nuovi mercati, mentre da noi si organizzavano missioni oltre confine con l'intento primario di attrarre nuovi clienti verso i nostri padiglioni. Trent'anni fa l'alta competitività del sistema Paese e le dimensioni prevalentemente europee del business garantivano il successo: ora il meccanismo perde colpi e va sostenuto anche con altri strumenti.

All'espansione delle iniziative dei quartieri si accompagna il nuovo attivismo di un numero crescente di associazioni di categoria, sospinte dalle imprese aderenti a ricercare nuovi sbocchi per le capacità produttive, sovradimensionate rispetto alla contrazione del mercato interno. Tornando al calendario italiano 2013, sorprende una novità in controtendenza rispetto agli usi inveterati tra gestori di fiere. A fronte della tendenza a copiare le fiere create da altri (magari a distanza soltanto di qualche decina di chilometri) quest'anno si registra la presenza di alcuni eventi realizzati in un quartiere e riprodotti in un altro quartiere, d'intesa con i suoi gestori, per presidiare un bacino d'utenza distante. È un segnale ancora debole, da monitorare con attenzione in quanto possibile portatore di razionalizzazione nel sistema e generatore di comportamenti e risultati win win.

C'è, allora, da essere ottimisti sul futuro? Di sicuro non per ora. Per tornare a sorridere le fiere dovrebbero poter contare su un sistema Paese moderno, efficiente, dotato di risorse economiche e in grado di sviluppare progetti di politica industriale per il rilancio e l'innovazione del manifatturiero nazionale; in tal caso la ripresa del business fieristico sarebbe quasi immediato. Così purtroppo non è: l'Italia è ferma da venticinque anni e al suo interno il complesso delle fiere stenta a tenere il passo della concorrenza internazionale. Con un certo sollievo si può, comunque, constatare che sotto il peso della crisi il sistema, tentato da comportamenti ripetitivi, incomincia a reagire cercando il rinnovamento, nella consapevolezza che restar fermi comporta la consunzione e costi economici e sociali non sopportabili. Affermata la volontà di non andare alla deriva, le soluzioni possibili ci sono, ma comportano rischi e costi elevati. Affidarsi in modo passivo per il futuro alle dinamiche di mercato condurrebbe alla chiusura di più di un quartiere italiano e alla trasformazione di alcuni altri, tra i maggiori, in operatori con sede legale in Italia, ma interessi economici prevalenti al di fuori del territorio d'origine.

Sarebbe una inaccettabile rottamazione di importanti patrimoni sia immobiliari sia professionali e imprenditoriali, beni comuni creati nel tempo al servizio della collettività. Occorre, invece, puntare all'ammodernamento complessivo del sistema per avere uno strumento capace di catturare nuovi mercati ai primi sintomi di ripresa internazionale. I nodi strutturali da sciogliere sono tre. L'eccessiva presenza di spazi espositivi, in termini di metri quadri e di sovraffollamento in alcuni aree geografiche. La confusione imperante di competenze, ruoli e calendari dei quartieri (grandi, medi, piccoli, micro). La mancanza di coordinamento della gestione della diffusione all'estero dell'offerta italiana, da un lato, e della promozione delle eccellenze (solo quelle effettive e peculiari) localizzate nei territori e nei distretti produttivi, dall'altro. I provvedimenti da adottare sono noti e già collaudati altrove con successo. Occorre trovare la volontà di attuarli finalmente con determinazione e, per una volta, con una visione d'insieme per il "bene comune" e senza miopi distinguo.

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