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Accordo globale sul clima nelle mani di Usa e Cina

La conferenza di Kyoto del 1997La conferenza di Kyoto del 1997

L'Europa ha già fatto la sua parte nella lotta all'effetto serra. Ora tocca a Cina e Stati Uniti. Se il protocollo di Kyoto è moribondo e in tutti questi anni non ha ancora trovato un erede, non è certo per colpa della Ue. Tra un vertice e l'altro, tra un fallimento totale (Copenaghen 2009) e un'intesa che rinvia tutto al 2015 fatta passare per un successo (Durban 2011), i negoziati internazionali sui cambiamenti climatici sotto l'ombrello dell'Onu hanno prodotto finora tonnellate di carta, ma pochi risultati concreti.

La conferenza di Parigi del dicembre 2015 è dunque senza appello. Entro quella data i 195 Paesi che siedono al tavolo della Convenzione quadro sui cambiamenti climatici (Unfcc) si sono impegnati a trovare un nuovo accordo internazionale dotato di forza legale per ridurre le emissioni di anidride carbonica. Un patto al quale questa volta devono aderire anche i Paesi in via di sviluppo, esclusi dal protocollo di Kyoto, oltre agli Stati Uniti.
In meno di vent'anni infatti gli equilibri economici mondiali sono cambiati in maniera radicale, e con loro la geografia dell'impatto ambientale. Se a Kyoto si era deciso, sotto la formula di «responsabilità comuni ma differenziate», di affidare solo ai Paesi avanzati l'onere dei tagli alle emissioni, oggi la lotta ai cambiamenti climatici sarebbe persa in partenza senza la partecipazione dei grandi Paesi emergenti. Solo la Cina ormai produce oltre un quarto delle emissioni mondiali di CO2, contro il 16% degli Stati Uniti e l'11% dell'Unione Europea.
Ecco perché saranno soprattutto loro, Usa e Cina, i protagonisti dei negoziati, e i responsabili di un loro eventuale fallimento.

Proprio nei giorni scorsi i rappresentanti dei due governi si sono incontrati e hanno avviato un dialogo che secondo i veterani dei negoziati climatici segna la novità più importante dai tempi del protocollo di Kyoto.
Di nuovo c'è soprattutto l'atteggiamento di Pechino. Le immagini delle megalopoli cinesi soffocate dallo smog non solo hanno fatto il giro del mondo, ma ormai sono diventate un'emergenza sanitaria nazionale. Le madri cinesi non vogliono crescere i propri figli in luoghi così insalubri, chiedono un'aria migliore e le autorità sanno di dover loro delle risposte. La svolta di Pechino a favore delle energie rinnovabili è dunque destinata a proseguire, così come gli investimenti nella mobilità sostenibile (leggi auto elettriche).
Quanto agli Stati Uniti, se le promesse di Barack Obama in materia di ambiente finora sono rimaste lettera morta, il calendario potrebbe essergli favorevole. Il vertice di Parigi cade infatti proprio a metà strada tra le elezioni di metà mandato del prossimo novembre e le presidenziali del novembre 2016. Una data ideale per mettere il governo americano nelle condizioni di accettare un'intesa impopolare in casa e dargli il tempo di farla digerire all'elettorato.

Che tipo di accordo dobbiamo aspettarci a Parigi? L'idea intorno alla quale si sta lavorando prevede che entro il primo trimestre del 2015 ogni Paese metta sul tavolo il proprio contributo alla riduzione delle emissioni e che da quella base si cerchi poi un'intesa globale che entrerebbe in vigore nel 2020. Siamo quindi più nel campo degli impegni volontari che degli obiettivi vincolanti sul modello di Kyoto. «Quello che si profila - spiega l'ex ministro dell'Ambiente Corrado Clini - è un accordo politico che non affronta il vero nodo della questione, cioè come ridurre le emissioni. Se la conferenza di Parigi approverà un'agenda condivisa che affronti i nodi chiave, cioè la necessità di fissare un prezzo al carbonio e di ridurre i sussidi ai combustibili fossili, allora sarà un successo, se invece si chiuderà con una generica dichiarazione di impegno a diminuire le emissioni, sarà un fallimento, anche se il circo del negoziato climatico andrà avanti comunque».

Ormai nessuno mette in dubbio che si debba fare sul serio. L'ultimo rapporto Ipcc (Intergovernmental panel on climate change) avverte che per limitare l'aumento della temperatura mondiale a 2 gradi centigradi occorre tagliare le emissioni del 40-70% entro il 2050. Un obiettivo molto ambizioso che finora solo l'Unione Europea sembra voler perseguire se verrà confermato il target di riduzione del 40% entro il 2030 proposto dalla Commissione. Questa volta però l'Europa non può rimanere isolata nel suo virtuosismo perché rischia di dover pagare un conto ancora più salato in termini di competitività rispetto ai maggiori concorrenti. E anche perché da sola, con il suo 11% di emissioni globali, non salverà il pianeta.

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