Impresa & Territori IndustriaEppure, Berlino ci serve
Eppure, Berlino ci serve
di Paolo Bricco | 13 maggio 2014
La meccanica rappresenta la specializzazione produttiva di base con cui la manifattura italiana partecipa alla ricostruzione delle gerarchie europee, fondate sulla leadership di una Germania. Intorno ad essa si stanno rimodulando - in una ottica sempre più pan-europea e sempre meno nazional-nazionalistica - i rapporti economici di un Vecchio Continente che riscopre la fabbrica quale snodo della propria identità profonda. Il collegamento con i mercati globali passa, per noi, soprattutto attraverso la mediazione della grande clientela tedesca.
Nel nostro Paese, pezzi interi delle cosiddette economie di territorio lavorano per il sistema industriale della Germania. La meccanica, in senso lato, comprende quella strumentale, i macchinari, la componentistica, il packaging. Se si esclude quest'ultimo, negli altri segmenti l'Italia si trova in una fase intermedia delle global value chains, laddove c'è la compressione dei costi e dei prezzi e laddove il valore aggiunto si crea, ma spesso viene poi trasferito più in alto. È esattamente quello che capita alla meccanica italiana nei confronti del Kombinat tecno-industriale tedesco. Adoperando la banca dati di Wto-Oecd Made in The World, l'ufficio studi di Intesa Sanpaolo ha constatato come nella meccanica in senso stretto la componente di origine italiana pesi sul valore aggiunto delle esportazioni tedesche per l'8,2 per cento.
Se si prende un segmento della meccanica come la componentistica automotive, questa quota si attesta all'8,1 per cento. Peraltro, il contributo della meccanica italiana contenuto nelle catene del valore a marca tedesca appare superiore rispetto all'apporto che la nostra manifattura fornisce alla prevalente economia tedesca: il contributo italiano al valore aggiunto dei manufatti esportati dalla Germania nel mondo è pari al 6,3 per cento. Dunque, esiste una piena funzionalità di questa simbiosi manifatturiera fra Italia e Germania. Ed è la ricaduta della costruzione di piattaforme manifatturiere di tipo continentale che, negli anni 90 aveva previsto Paul Krugman. Ma, soprattutto, è la dimostrazione - ancora una volta - della capacità adattiva dell'economia italiana agli shock strutturali. La crisi del paradigma della grande impresa, che ha sancito il ridimensionamento delle famiglie del capitalismo privato novecentesco e dell'economia pubblica di matrice Iri, avrebbe potuto provocare negli ultimi 25 anni uno sbandamento violentissimo.
L'Italia sembra, però, avere assorbito gli effetti di questo mutamento strutturale endogeno, adattandosi a una internazionalizzazione che l'ha spinta a una maggiore coesione con il resto del corpo industriale europeo, appunto incentrato dal punto di vista strategico e tecnologico, finanziario e "prepolitico" sulla Germania.