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Questo articolo è stato pubblicato il 02 ottobre 2014 alle ore 09:51.

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MILANO - Prima Segni, poi Tambroni, infine Fanfani. E le Olimpiadi di Roma, l'avvio di Fiumicino, le prime tribune politiche, il tram a 35 lire, l'esordio in sala della Dolce Vita di Fellini. Correva l'anno 1960. Davvero dolce per il nostro Paese, lanciato nel pieno del miracolo economico, con una foga di produrre e ricostruire che spingeva in alto investimenti e consumi. Quelli di cemento avvicinavano e sfondavano quota 20 milioni di tonnellate, livello mai raggiunto in passato, mai più riavvicinato al ribasso da allora.

Fino ad oggi però. Perché ora l'Italia del cemento torna ad essere in bianco e nero, ritrovando numeri che non vedeva più da 54 anni. Difficile, pur tra decine di indicatori tutti orientati al ribasso, trovare in Italia un settore più martoriato, afflitto ormai da sette anni consecutivi di calo dei volumi. Dopo un crollo a doppia cifra nel biennio precedente, il 2014 è per la verità un periodo di relativa stabilizzazione, ma il calo previsto del 4% si aggiunge ad una situazione già gravemente compromessa. «Ci sono pochi investimenti pubblici e poche nuove costruzioni – spiega sconsolato il presidente dell'associazione di categoria Aitec Giacomo Marazzi – e le nostre stime vedono un magro incremento di un paio di punti percentuali nei prossimi cinque anni». Briciole. Perché il crollo dei volumi consumati si è ovviamente tradotto in uno shock lungo l'intero apparato produttivo. Per le aziende quotate del settore, Italcementi, Buzzi Unicem e Cementir, tra 2008 e 2013 la crisi ha determinato un dimezzamento secco dei ricavi realizzati in Italia, un colpo da 1,1 miliardi di euro che raddoppia allargando lo sguardo all'intero settore.

Chi resiste lo fa soprattutto grazie alla proiezione internazionale, mentre in Italia il ridimensionamento produttivo è stato evidente, con la chiusura di 21 dei 60 impianti a ciclo completo esistenti nel 2008. «E purtroppo immagino che questo trend continui – aggiunge Marazzi –, insieme al processo di concentrazione, perché in alcune aree del paese vi è ancora sovracapacità produttiva e al momento non è prevedibile un'inversione netta del mercato. Lo Sblocca Italia? Va nella direzione giusta, ma le risorse sono troppo dilazionate nel tempo». Alla caduta degli investimenti pubblici, circa il 40% del mercato per i produttori di cemento, si aggiunge in Italia il tracollo delle nuove costruzioni, con numeri che vanno letti almeno un paio di volte nei fogli statistici per essere certi di non cadere in errore: 250mila le nuove abitazioni registrate dall'Istat nel 2007, solo 53mila lo scorso anno. «Eppure - spiega Marazzi – le aziende non sono rimaste ferme, hanno fatto efficienza e investito 150 milioni soprattutto in sostenibilità, con azioni che proseguono anche ora». Altri paesi in Europa hanno sperimentato un rallentamento nell'edilizia ma l'Italia da questo punto di vista è certamente in coda alla classifica.

Posta pari a 100 la produzione di cemento 2010, per noi il calo è del 38%, per la Francia solo di dodici punti, la Germania è invece già al di sopra di quel livello. «Le possibilità di invertire la rotta ci sono – spiega Marazzi – anzitutto lanciando finalmente un piano di riqualificazione urbana che ammoderni e metta in sicurezza il patrimonio esistente, milioni di abitazioni costruite prima di ogni normativa anti-sismica o energetica. Un grande aiuto sarebbe anche la possibilità per le aziende di risparmiare sui costi utilizzando combustibili alternativi: da noi valgono il 10% dei consumi, in Germania cinque volte tanto».

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