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Questo articolo è stato pubblicato il 09 novembre 2014 alle ore 14:16.

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POMPEI. Dal nostro inviato
Gli anglosassoni lo chiamano Pompei paradox, un caso da manuale (e un'onta per l'Italia) studiato nelle scuole di business di mezzo mondo.
A Pompei c'è tutto: il luogo più affascinante dell'antichità e 2,5 milioni di turisti che per visitare l'antica città romana muovono dai luoghi più remoti del pianeta. Sono almeno per la metà turisti ricchi e con famiglie al seguito, la classe agiata del mondo occidentale che ogni giorno ondeggia sui decumani, contempla gli affreschi della casa di Lucio Cecilio Giocondo, sfiora la fontana delle terme suburbane e il tempio di Giove. Al cospetto di una clientela iper selezionata che farebbe la felicità di qualsiasi imprenditore, sarebbe naturale aspettarsi il solito corollario di alberghi a cinque stelle, ristoranti stellati prenotati mesi prima, negozi di griffe italiani affollati già dal primo pomeriggio. Invece no. C'è l'attrattore culturale, come lo chiamano gli esperti, e c'è la clientela danarosa, ma a Pompei non si vende e si compra nulla, salvo il biglietto d'ingresso a 18 euro, qualche bottiglia d'acqua e, se proprio si decide di strafare, un orrendo souvenir made in China.
Appena cala il sole, i 2,5 milioni di turisti, come richiamati da un pifferaio magico, spariscono nel giro di neppure mezz'ora: sgusciano su qualsiasi mezzo sia dotato di gomme (pullman, taxi, navette) o guadagnano a passo sostenuto la stazione ferroviaria della circumvesuviana che collega Napoli alla penisola sorrentina. Un po' come se i 27 milioni di turisti che ogni anno sommergono Venezia si dileguassero alle prime luci del tramonto in direzione di Padova, Treviso o Belluno.
Da decenni tutti i ragionamenti ruotano attorno alla grande emergenza nazionale: salvare dallo sfarinamento la più grande città dell'antichità (si veda l'articolo qui sotto). Mai però che qualcuno si sia posto la domanda più ovvia, che peraltro avrebbe effetti immediati sul Pil e sull'economia di Pompei e dintorni, che non dimentichiamo è collocata nella provincia di Napoli, disoccupazione di lungo periodo endemica e allo stesso tempo - altro paradosso italico - uno dei luoghi con la più alta concentrazione di bellezze archeologiche e naturalistiche del globo. Solo per citarne due al di qua del mare e sempre col timbro dell'Unesco: Oplonti ed Ercolano, con l'aggiunta di Boscoreale e le ville romane di Stabia. Ci fermiamo qui, perché al di là del terraferma, praticamente di fronte al Vesuvio, si stendono placidamente le isole di Ischia, Procida e Capri. Una precisazione per nulla superflua se si vuol capire come mai i romani decisero di piantare Pompei ed Ercolano a queste latitudini.
Il politologo americano Edward Luttwak qualche anno fa fotografò la situazione di Pompei (fuori e dentro il sito) con una disarmante verità: «Affidate la pratica agli americani». Basta fare due passi per Pompei, famosa per la sua Madonna e i 2,5 milioni di pellegrini che ogni anno si sommano agli stranieri che visitano la città antica, per solidarizzare d'istinto con i turisti fuggitivi. Con un ribaltamento del paradigma: le autentiche rovine fisiche (e morali) sono monopolio della città contemporanea, non certo degli scavi. Tradotto in versione turistica: manca tutto, non solo gli hotel a cinque stelle. Un contesto che fa a pugni con le regole essenziali del turismo e porta solo argomenti a favore dell'opinionista americano.
E allora? O l'opzione Luttwak o l'opzione Prezioso, che sta per Ambrogio, neo presidente degli industriali di Napoli ed ex numero uno dei costruttori partenopei, un visionario del mattone che all'alba del 2006 stese un piano per trasformare la sua città, in linea con Sidney, Vancouver e Copenhagen, nella capitale mediterranea delle tre "t" teorizzate da Richard Florida (talento, tolleranza, tecnologia). Per l'area di Pompei, Prezioso ha coniato le tre "r": rigenerazione, rinascita e redistribuzione. Visionario del mattone significa idee e concretezza: serve il progetto, un'area idonea vicina agli scavi, una cordata di imprenditori privati e il sostegno pubblico per realizzare le infrastrutture. Poi ci vuole il coraggio delle proprie azioni, come in ogni intrapresa umana. L'area c'è: si chiama Marina di Stabia, il porto turistico con mille posti barca disegnato da Massimiliano Fuksas, con approdi per yacht dai sessanta ai 100 metri (unica Marina a sud di La Spezia), a due chilometri in linea d'aria dagli scavi. I proprietari, insieme con un notaio stabiese, un imprenditore irpino e il Monte dei Paschi di Siena, che credette nel progetto in tempi non sospetti, sono Salvatore e Giovanni La Mura, padre e figlio. Il primo, oltre che commercialista, è stato leader socialista di Castellammare ed ex assessore regionale ai tempi in cui imperava don Antonio Gava. Salvatore esce di scena prima di tangentopoli con la fedina penale immacolata («alla Regione si perdeva solo tempo: ho preferito tornare al mio studio»). Intorno Marina di Stabia ci sono gli stabilimenti dismessi (tranne le bullonerie Fontana ancora attive) dell'ex area Falck. Sessanta ettari di archeologia industriale con un water front di 1,3 chilometri ai piedi del lussureggiante Monte Faito e a poche centinaia di metri dal grande carapace capovolto dello stabilimento di Fincantieri. Di fronte troneggia l'isola Capri e Punta Campanella. I La Mura sono pronti a costruire un resort a cinque stelle e una Spa sul modello di quella della Pompei antica per inchiodare a questi luoghi una clientela facoltosa. Nel mese di luglio Marina di Stabia pullulava di armatori eccellenti di ogni parte del mondo tra i quali un magnate indiano a bordo del panfilo Indian Empress da 96 metri.

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