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05 gennaio 2015

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Impresa & Territori IndustriaTessile e moda, 2015 in crescita

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Tessile e moda, 2015 in crescita

«Per la prima volta da qualche stagione, quest'anno va complessivamente meglio il tessile rispetto all'abbigliamento-moda». A dirlo è Claudio Marenzi, presidente di Sistema Moda Italia (Smi).

La “sorpresa”, però, è positiva a metà, perché all'attesa ripresa della parte a monte della filiera, fa da contraltare un rallentamento di quella a valle su alcuni mercati. Una situazione che preoccupa perché riguarda in particolare Russia e Cina, «pericolosi granelli di sabbia negli ingranaggi delle nostre imprese che vivono soprattutto di export e che fanno sentire il loro effetto negativo» sintetizza Silvio Albini, titolare dell'omonimo cotonificio bergamasco e presidente di Milano Unica (l'associazione che organizza la rassegna di settore: la prossima in programma dal 4 al 6 febbraio a Fieramilanocity). La Russia è l'ottava destinazione per i prodotti del sistema guidato da Marenzi, con oltre un miliardo in valore nei primi nove mesi 2014, periodo in cui ha già perso il 10%. Per il presidente di Smi, se continueranno le tensioni geopolitiche e le sanzioni a Mosca, «nello scenario peggiore il nostro abbigliamento rischia di perdere il 50% su quel mercato». Si tratta di una variabile «indipendente dalla volontà delle nostre imprese», sottolinea Albini, e che potrebbe condizionare uno scenario «che dovrebbe essere positivo nel 2015 così come lo è stato il 2014». Una conferma del sentiment delle imprese arriva da Biella, «dove il tessile resta, nonostante le pesanti scremature, la caratteristica primaria del distretto» dice Marilena Bolli, presidente degli industriali. «La situazione per il prossimo anno ci sembra in miglioramento, anche se esistono fatto geopolitici complessi». A farne le spese, ricorda il presidente di Milano Unica, «rischiano di essere ordinativi e fatturato».

Giudizi condivisi da Marenzi che sottolinea come il tessile stia andando bene pressoché in tutte le aree, dagli Stati Uniti alla Cina, mentre sia l'abbigliamento, come detto, a presentare qualche difficoltà.

Le preoccupazioni sono giustificate visto che l'abbigliamento-moda è il segmento a maggior valore aggiunto e rappresenta circa i due terzi di una torta da oltre 27 miliardi di esportazioni nel 2013 (aggiungendo pelletteria, calzature, accessori, lo scorso anno si è arrivati a 45 miliardi) e oltre 21 miliardi tra gennaio e settembre 2014. Sul futuro del settore, però, pesano altre incognite: «Un rallentamento della Germania – spiega Claudio Marenzi – che andrà monitorato per capire se sia l'indizio di qualcosa di più importante. E la situazione ancora complessivamente pesante del mercato italiano».

Altri tempi quando il conte Oreste Rivetti, a capo dell'omonimo impero tessile biellese – dopo aver superato la diffidenza iniziale e aver ordinato «cadreghe!» (sedie in dialetto) per far accomodare l'ospite – spiegava al giornalista-scrittore Guido Piovene che la crisi non c'era: «Io non ho commessi viaggiatori. Ne faccio a meno. Sono i clienti che devono venire da me. Io il mio prodotto lo conosco. Se lo vogliono, bene; sennò lascino stare». Correvano gli anni 50 e 60. Passato il boom sono arrivati l'Austherity, le crisi degli anni 70-80, l'edonismo, la globalizzazione e, infine quest'ultima, lunga recessione.

Senza andare tanto indietro nel tempo, il censimento Istat sull'industria nel 2001 contava 71.524 aziende in Italia, per oltre 600mila addetti diretti. Dieci anni dopo, il censimento successivo si fermava a 48.157 imprese per poco più di 368mila dipendenti. E negli ultimi tre anni l'emorragia è continuata.

«Le aziende rimaste hanno spalle più larghe, per prodotto, presenza commerciale, affidabilità», dice Albini. «Resistono bene le realtà che si sono posizionate sulla fascia alta di mercato, quelle che hanno saputo riorganizzarsi – sottolinea Marilena Bolli –, ma in questa fase mancano ancora quei margini che servirebbero per investire. Fanno eccezione le realtà più strutturate e capitalizzate».

Soprattutto in una fase di incertezza come quella attuale, il riconoscimento dell'etichettatura d'origine obbligatoria a livello europeo sarebbe strategico e lo stallo pesa alle aziende: «Siamo l'unica grande area del mondo dove non c'è questo tipo di trasparenza», sottolinea Albini, cui fa eco Claudio Marenzi: «Siamo molto delusi per il risultato del semestre italiano a Bruxelles: sappiamo che c'erano altre priorità, ma andrebbe compresa la valenza di quel provvedimento dal punto di vista della competitività, dell'export del made in Italy e dell'occupazione per un settore labour intensive come il tessile-abbigliamento». Ora la filiera spera almeno che venga avviato un periodo di prova per alcune categorie «sulle quali sembra esserci un'apertura della Germania».

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