Impresa & Territori IndustriaLa sindrome italiana del non fare top down
La sindrome italiana del non fare top down
di Lello Naso | 23 gennaio 2014

Naso Bisogna prendere atto che il non fare è ormai la regola, non fa più notizia. Un non fare top down verrebbe da dire. Dalle grandi opere, strategiche per gli interessi del Paese, agli apparentemente piccoli interventi, vitali per la competitività delle imprese, è una litania di rinvii, divieti, sentenze del Tar e del Consiglio di Stato che hanno come ultimo effetto la paralisi del sistema Italia.
Il Sole 24 Ore documenta da anni, non con denunce generiche, ma raccontandoli con dovizia di particolari, i singoli casi di malaburocrazia. Che si intreccia a una giustizia civile lenta e farraginosa e allo strapotere dei comitati bloccatutto di ogni colore. Abbiamo raccontato la fuga di British gas da Brindisi dopo nove anni di rinvii e 600 milioni di investimenti; la rinuncia di Eni alla costruzione della centrale a basso impatto ambientale a Taranto; abbiamo seguito passo passo il naufragio del rigassificatore di Trieste e l'odissea dell'elettrodotto veneto di Terna tra Dolo e Camin. Tutte opere strategiche che, in barba ai comitati, porta(va)no in dote anche la riduzione di emissioni. Oltre che, naturalmente, investimenti, sviluppo e posti di lavoro.
Abbiamo anche raccontato i casi limite delle imprese bloccate da cavilli. Costruzioni e ampliamenti di stabilimenti, nuove linee di produzione fermi da anni. Un caso per tutti, quello della bolognese MT Motori Elettrici che per la costruzione di una minuscola tettoia di un cortile interno ha prodotto quattro chili di carta e speso 30mila euro di sola burocrazia.
La sensazione è che il distacco tra il Paese reale e chi decide sia profondissimo. Ieri dopo l'approvazione di sette articoli su otto il decreto Ilva-Terra dei fuochi è stato rinviato. Perché fare oggi quello che può essere tranquillamente fatto domani? Dalle opere strategiche alla tettoia di una piccola impresa.