Molti leader di successo noti al grande pubblico non possono essere presi come esempi di leader empatici e relazionali e sono molto lontani dai modelli di leadership descritti nei libri di management (leadership partecipativa, risonante, ecc.). È possibile quindi che tutto ciò che si legge sulla leadership sia retorica buonista rispetto ad un mondo reale in cui il leader che si impone è quello autoritario, dispotico, fortemente orientato agli obiettivi e poco incline all’empatia?
Sarebbe sbagliato pensare che le teorie sulla leadership siano prive di valore in quanto scollegate dalla realtà. La ragione di questa lontananza tra le caratteristiche “teoriche” della leadership” e le caratteristiche reali risiede in gran parte nei meccanismi di selezione dei leader o presunti tali. Le competenze e gli atteggiamenti che servono per fare carriera e quindi assumere posizioni di leadership sono molto diversi da quelli che servono per gestire un team o un’azienda.
Una fortissima ambizione personale, uno spiccato orientamento all’obiettivo (contro tutto e contro tutti), l’ossessione per il controllo, abbinati ad una non trascurabile dose di narcisismo e al piacere di prendere decisioni e di influenzare gli altri, sono tutte caratteristiche abbastanza comuni nei top manager delle aziende. Queste qualità sono estremamente utili per raggiungere posizioni crescenti in azienda. All’interno delle organizzazioni infatti, vengono generalmente premiate le persone che dedicano molto tempo al lavoro, che non si arrendono di fonte alle difficoltà e che portano in maniera continuativa risultati senza se e senza ma. Chi, per fare un esempio, diventa direttore commerciale? Chi nel tempo ha raggiunto le migliori performance di vendita, non certo chi è stato più attento a costruire una squadra e a creare un senso di comunità.
Queste caratteristiche non sempre sono quelle più utili per gestire un’azienda, una volta occupata una posizione di vertice. Quando la partita è personale, ovvero il raggiungimento dell’obiettivo assegnato è funzionale alla carriera, conta solo il “cosa” (il target raggiunto o meno). Quando invece si è raggiunto l’apice della piramide la partita smette (o dovrebbe smettere) di essere personale e diventa aziendale, riguarda l’intera organizzazione. In questo caso, oltre al “cosa” (l’obiettivo raggiunto) conta molto anche il “come” lo si è raggiunto. Le modalità con cui si conseguono i risultati aziendali contano più di prima perché, in qualità di CEO e quindi di rappresentante degli azionisti, per definizione si dovrebbe essere più interessati a logiche di medio-lungo periodo e soprattutto ad assicurare all’azienda performance sostenibili e durature.
Ciò ha molte implicazioni sulle scelte strategiche di investimento ma anche sulla cultura aziendale che si contribuisce a costruire con la propria azione di management. Ecco quindi che l’accentramento decisionale crea dipendenza e pigrizia in alcuni e apatia e demotivazione in altri (i più bravi). E il disinteresse per gli aspetti relazionali rispetto al tema degli obiettivi può determinare la generazione di un ambiente fortemente competitivo e stressante che può generare ripercussioni negative sui flussi di comunicazione interna, sulle sinergie organizzative e sui processi di innovazione.
Una seconda distinzione che è importante fare riguarda la leadership di chi ricopre un ruolo gerarchico e la leadership tout court. Siamo sicuri che i CEO siano leader? Indubbiamente ricoprono un ruolo di guida dell’azienda ma sarebbero altrettanto seguiti dalle loro persone se non avessero un potere gerarchico? La domanda quindi è: ricoprono il ruolo di top manager perché sono leader, oppure sono considerati leader perché ricoprono la carica di CEO? Chiaramente non si può generalizzare una risposta, tuttavia, la mia impressione è che se alcuni top manager fossero spogliati dei loro gradi si troverebbero rapidamente messi nell’angolo, risultando incapaci di coinvolgere i loro stessi famigliari e amici, figuriamoci i colleghi d’azienda.
Nello stesso modo vi sono moltissime persone all’interno delle organizzazioni che, pur non ricoprendo ruoli gerarchici di alto livello, sono riconosciuti come punti di riferimento e considerati leader dai colleghi. Se si andassero ad analizzare le caratteristiche e soprattutto i comportamenti, di queste persone, si troverebbero aspetti molto diversi da quelli precedentemente descritti a proposito dei top manager.
Ci si deve a questo punto chiedere perché personaggi simili fatichino ad emergere e ad assumere ruoli di primo piano all’interno delle imprese. Il tema è complesso e di forte attualità. Alcuni dati possono aiutare a comprendere la situazione. Nel 1995 la durata media un CEO era di 10 anni, oggi i CEO cambiano in media ogni 6 anni. Negli Anni 70 il possesso di titoli aziendali durava mediamente 7 anni, oggi si avvicina a 7 mesi. La forte competizione internazionale ha creato un habitat aziendale particolarmente favorevole all’orientamento ai risultati di breve e a tutti i costi. Al CEO è chiesto di portare risultati in tempi rapidi e in maniera continuativamente crescente. Di fatto questo non fa che legittimare gli stessi comportamenti che i manager hanno adottato per fare carriera, continuando a privilegiare il “cosa” al “come”. Le ripercussioni sulla competitività prospettiche delle imprese sono estremamente negative.
Queste riflessioni non riguardano solo i manager ma anche il mondo politico. Le competenze per entrare e restare in politica sono oggi molto diverse dalle competenze che servirebbero per amministrare la res publica. Per essere eletti risultano premianti la capacità di raccogliere consenso con facili promesse, la bassa diplomazia che porta a non prendere mai una posizione per non scontentare nessuno e l’abilità di cambiare opinione a seconda delle situazioni senza nessuna preoccupazione per la propria coerenza e coscienza. Abbiamo tutti ben chiaro come queste “capacità” siano oltremodo nefaste quando si tratta di governare un Paese.
* Partner di Newton Spa
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