Maria e Francesca sono colleghe. Ciascuna nel proprio ruolo sono responsabili di un progetto trasversale di grande importanza che sta procedendo bene ma che adesso, per rimanere nei tempi e cogliere tutte le opportunità, va un po’ accelerato, soprattutto nei passaggi autorizzativi. Nel tardo pomeriggio di ieri, mentre Maria era impegnata in un altro suo progetto, Francesca doveva fissare un incontro a tre con l’amministratore delegato per sbloccare un paio di punti significativi; in serata Maria ha però ricevuto un messaggio in cui Francesca diceva di averlo già incontrato da sola e di avere già risolto.
Come prima cosa stamattina Maria è andata da Francesca: pensa che l’abbia scavalcata e che si voglia attribuire meriti e visibilità. Francesca si difende: l’amministratore delegato non ci sarà per una decina di giorni, ma era possibile incontrarlo subito. E così ha fatto, sobbarcandosi anche la parte di Maria; non si aspettava di essere ringraziata, ma certamente non di essere accusata. In chi vi state immedesimando di più? Difficile dirlo, le informazioni non sono sufficienti e ciascuno di noi può facilmente tifare sulla base di esperienze passate, vissute più nei panni di Maria o di Francesca.
Lo stesso vale per loro: in un rapporto consolidato esiste un “passato” e se le persone si portano dietro una reputazione, la fiducia non riguarda una sola conversazione o episodio. È chiaro che sulla conversazione e sul rapporto pesa il fatto che Francesca possa avere già avuto comportamenti che possono far pensare a troppo protagonismo, oppure che Maria sia solita dare la precedenza ai propri progetti rispetto a quelli comuni.
Il poco che sappiamo però ci basta per qualche riflessione su un particolare ostacolo all’ascolto in una relazione: noi stessi. Se io presumo di sapere quello che il mio interlocutore mi dirà, finirò per non ascoltarlo, perché sto pensando a come ribattere (ascolto “presuntuoso”). Un fenomeno senza uscita quando diventa «processo alle intenzioni»: mi concentro non su cosa mi viene detto, ma sul perché mi viene detto, pensando oltretutto di sapere già il reale perché, cioè l’intenzione. In tal caso, niente di quello che farai potrà cambiare la mia convinzione sulle tue intenzioni.
Se ho deciso che la tua intenzione era scavalcarmi, qualunque spiegazione diventerà comunque, ai miei occhi, una conferma:
«Ma io ho parlato con l’Ad perché era l’unica possibilità!».
«Certo, e non ti è parso vero!».
«Scusa se ero impegnata a studiare la tua parte!».
«Che hai sempre voluto fare tu, io mi sarei staccata volentieri dalla mia riunione».
«Ma se tu mi avevi detto che la tua riunione era importante!».
«Però almeno un messaggio potevi mandarmelo!».
E così via... all’infinito.
C’è qualche antidoto comunicativo al processo alle intenzioni? Certamente. Il presupposto è sempre l’attenzione alla posizione percettiva dei nostri interlocutori: cosa potrebbero pensare del mio comportamento? Se intravediamo dei rischi, possiamo ridurli creando, con il maggiore anticipo possibile, un contesto che contribuisca a far leggere il nostro atteggiamento secondo le nostre reali intenzioni. Nel caso di Francesca, ad esempio, oltre al messaggio che cita anche Maria avrebbe potuto inserire qualcosa in quello che ha mandato a posteriori (del tipo: «ti sapevo impegnata, ho avuto poco tempo, mi sono preparata per andare da sola pur sapendo che poteva essere visto come protagonismo»).
Tendiamo a non farlo per due motivi: perché la nostra intenzione non è quella e quindi siamo distratti rispetto al fatto che qualcun altro potrebbe invece pensarlo. Oppure perché temiamo la celebre «excusatio non petita»: il rischio esiste ma nei casi delicati meglio correre il rischio della «accusatio manifesta» piuttosto che incappare nella funesta certezza del «processo alle intenzioni». E come evitare invece di fare il processo alle intenzioni altrui? Rimanendo il più possibile sui fatti: in assenza di prove inconfutabili del contrario, dal punto di vista relazionale mi conviene trattare ciò che mi viene detto come se fosse la verità, senza interpretare il comportamento e addirittura le intenzioni.
Pensate al paradosso «non si può svegliare qualcuno che fa finta di dormire». Se dovete far alzare dal letto qualcuno e pensate che per dispetto stia facendo finta di dormire, vi verrà spontaneo spintonarlo urlando un «forza lo so che stai fingendo!». La reazione «eh! ma che modi!» è scontata. Siccome io non so se stia dormendo veramente e non conosco le sue intenzioni, lo offendo se sta dormendo veramente, mentre se sta fingendo gli offro uno straordinario strumento comunicativo da usare contro di me (e visto che già sta fingendo, perché dubitare che lo userà?).
Vi siete riconosciuti? In tal caso spero non abbiate trovato gli esempi offensivi e, comunque, sappiate che non era mia intenzione.
* Senior Consultant Newton S.p.A.
© Riproduzione riservata