Una buona e una cattiva notizia sul management: la buona è che gli studiosi della materia convergono sulla definizione di un corpus di conoscenze, metodi e pratiche che costituiscono le competenze manageriali. Esistono, sono utili, fanno la differenza in termini di risultati (a parità di altre condizioni) e si possono imparare. Non è poco. La cattiva è che ancora troppi manager italiani (questo il nostro punto di osservazione) continuano a pensare che queste competenze siano quelle tecniche, ancorché di alto livello, del marketing e della finanza in primis.
La complessità organizzativa e la dimensione della conoscenza dei “cittadini” dell’impresa viene trascurata e, a volte, banalizzata: per essere un bravo manager devo comunicare bene, faccio un corso di public speaking e miglioro la “parlantina”. In molte imprese si lavora lodevolmente sulla comprensione della personalità, dei valori e delle motivazioni (perché elementi predittivi delle capacità manageriali) e sulla valutazione del possesso di alcune competenze manageriali per le decisioni di sviluppo delle carriere. Ma non basta. È necessario che chi opera nelle aziende, in particolare con responsabilità di altre persone, abbia una maggior comprensione di come ciascuno di noi si forma una valutazione e come arriva a prendere decisioni.
Molti manager, anche con responsabilità rilevanti, hanno una visione molto ottimistica e di eccessiva fiducia nelle capacità di formulazione di valutazioni e presa di decisioni in condizioni di incertezza: si sono formati su teorie di tipo deterministico e di ricerca dell’ottimo quando gli sviluppi recenti degli studi sul comportamento organizzativo hanno gettato una luce nuova sulla razionalità delle nostre azioni. In particolare, la teoria della Behavioral Economics ha portato un avanzamento poderoso nella comprensione della capacità di presa delle decisioni. L’importanza di tale teoria nelle scienze sociali è stata consacrata dall’attribuzione recente di premi Nobel per l’economia(Kahnemann2002 e Thaler 2017).
L'economia comportamentale critica il paradigma dell’homo oeconomicous, perché «astratta semplificazione della complessa realtà umana» (EnciclopediaTreccani). La teoria «integra le risultanze della ricerca psicologica nella teoria economica, in particolare per quanto riguarda la valutazione e la presa di decisione in condizioni di incertezza» (motivazione del Nobel a Kahnemann).
Proviamo a raccontare gli aspetti più rilevanti e le ragioni per cui i manager dovrebbero sviluppare (molta) più dimestichezza con la materia. Dal momento che è sempre più frequente essere chiamati a formulare previsioni e prendere decisioni in condizioni di incertezza diviene necessario capire come ci comportiamo effettivamente (e non astrattamente) in queste situazioni. La nostra ricerca delle informazioni, l’elaborazione delle stesse, la formulazione delle alternative e la scelta sono faticose e richiedono un rilevante sforzo e investimento di energie. Infatti noi ricorriamo a molte semplificazioni, quando non a dei veri e propri automatismi che ci permettono di valutare e decidere in tempi rapidi. Nel fare cadiamo spesso in illusioni percettive e cognitive.
Un esempio: si dimostra che le persone (anche gli esperti!) traggono conclusioni da informazioni basate su campioni troppo piccoli e non rappresentativi dell’intera popolazione. Davvero una brutta notizia: generalmente l’uso statistico dei dati non è per nulla naturale. Un secondo esempio è che ci facciamo condizionare dal fatto che quando ci serve un dato o un modello tendiamo a privilegiare quelli che più facilmente ricordiamo e che non è detto siano rilevanti per la spiegazione del fenomeno che stiamo analizzando: solo risultano in quel momento più accessibili e disponibili alla nostra mente. Un terzo esempio riguarda la potenza del riferimento iniziale (si pensi alla prima richiesta nelle negoziazioni), quando le analisi e le dinamiche successive difficilmente spostano il risultato in modo significativo dalla stima iniziale (effetto àncora).
I meccanismi descritti sono scorciatoie che vengono utilizzate e che gli studiosi chiamano eurismi decisionali. Come decisori siamo quindi vittime, spesso inconsapevoli, di bias e di distorsioni percettive e cognitive che ci spingono verso decisioni più facili ma non necessariamente corrette.
Due conclusioni sintetiche. Primo, è necessario che il «conosci te stesso» degli antichi greci spinga i manager a studiare e impadronirsi di questo sapere, consapevoli che nel prossimo futuro questo sarà altrettanto importante che saper fare bene una SWOT analysis. Secondo, uno dei motivi per cui usiamo le organizzazioni invece di fare tutto da soli è proprio che esse riescono meglio degli individui a evitare errori. Le organizzazioni però non crescono in natura, sono costruite dagli uomini per i loro scopi. Abbiamo quindi la responsabilità, ma anche la chance, di progettare processi decisionali organizzati in modo tale da non lasciare soli gli individui in compagnia della loro illusoria capacità manageriale!
* Professore a contratto di organizzazione aziendale presso l’Università Bocconi e Management Consultant
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