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Il nodo delle successioni nella moda: perché il passaggio fra “padri fondatori” e giovani resta un tabù

La famiglia Ferragamo
La famiglia Ferragamo


Nessuna critica a priori, anzi. Il presupposto dell'ultima PwC Family Business Survey (Fbs) è che il settore delle imprese familiari rappresenta tra il 70 e il 90% del prodotto interno lordo mondiale e che la sua vitalità è un «efficace strumento di misura dell'economia». Affermazioni che valgono per tutti e 40 i Paesi sui quali si è concentrato lo studio PwC, arrivato alla settima edizione, e a maggior ragione per l'Italia e per la moda, dove le imprese familiari sono la maggioranza. Le criticità però esistono e una delle principali è il passaggio generazionale, come spiega Giorgio Elefante, Family business specialist di PwC Italia commentando i dati Fbs, frutto di interviste con 2.378 dirigenti di imprese a conduzione familiare sparse per il mondo.

«A livello globale, le family company avvertono la necessità di introdurre competenze professionali esterne per supportare la pressione competitiva e gestire la trasformazione digitale che ha investito ogni settore dell'economia – sottolinea Elefante –. In Italia, al contrario, i membri delle famiglie sono impegnati in prima linea nel guidare il rilancio o l'uscita dal tunnel della recessione globale innescata dal crac Lehman Brothers del 2008, ma spesso i giovani ricoprono subito posizioni di vertice senza un'adeguata preparazione e mancano le giuste modalità di soluzione dei conflitti interni».

Elefante non vuole fare esempi o citare case history di successo o insuccesso, ma è evidente che in Italia, ancora più che in Francia, il settore della moda deve affrontare il nodo del passaggio di consegne tra la generazione di imprenditori-stilisti che hanno fondato un'azienda o un marchio e le nuove generazioni. In alcuni casi è stata scelta la strada della Borsa, come per Salvatore Ferragamo, che oggi ha come amministratore delegato un manager esterno alla famiglia, Michele Norsa,e che ha trovato un equilibro tra logiche prettamente familiari e di mercato.

In Francia invece c'è il caso della famiglia Arnault: Bernard ha fondato Lvmh, oggi il più grande gruppo del lusso al mondo, quotato a Parigi. La famiglia è azionista di maggioranza e i figli Delphine e Antoine sono, rispettivamente, vicepresidente di Louis Vuitton e ceo di Berluti.
«La Borsa può essere una strada, ma non è l'unica e comunque non presuppone la soluzione di problemi culturali o di conflitti generazionali più o meno latenti – aggiunge Elefante –. Il tema è quello di darsi una governance, di stabilire con esattezza i ruoli e di essere credibili nelle deleghe che si attuano. Spesso le aziende familiari si precludono la possibilità di attirare bravi manager esterni perché le dinamiche interne sono note: si sa cioè che a decidere vogliono comnque essere i “padri fondatori” e che non è facile implementare strategie senza il benestare dei membri senior della famiglia o di figure fortemente legate alla famiglia».

Facendo un confronto con il 2012, anno del precedente Family business survey di PwC, la situazione è comunque migliorata: «In generale, le imprese a conduzione familiare hanno raggiunto standard di gestione molto più strutturati e razionali rispetto a due anni fa – spiega ancora Elefante –. Le priorità dichiarate sono la capacità di mantenere in vita la propria attività e il miglioramento della redditività».

Tornando alla moda, il consulente di PwC sottolinea una peculiarità: «Rispetto a moltissimi altri settori, le aziende del fashion, italiane e non, hanno creato un brand, uno stile, un vero e proprio Dna, un valore intangibile. La convinzione dei fondatori, non del tutto sbagliata, è di essere fondamentali perché il marchio non tradisca se stesso, non si trasformi, con il rischio di diventare meno appetibile anche agli occhi dei consumatori finali. Una convinzione che a volte impedisce di delegare persino alle figlie o ai figli».

Un ultimo dato positivo riguarda l'internazionalizzazione: per il 68% delle imprese familiari interpellate l'export assorbe un quarto del fatturato e tre quarti degli intervistati dichiara di voler dedicare i prossimi cinque anni ad aumentare questa percentuale. In Italia la situazione è ancora migliore, con un export medio al 39 per cento.

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