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Brexit, le reazioni della moda. Marenzi (Smi): «Perdiamo un avversario». Kering: «Ci adatteremo»

Burberry - Londra
Burberry - Londra

I designer avevano detto la loro, votando in massa (secondo sondaggio condotto dal British Fashion Council la percentuale superava il 90%) contro l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Questa mattina, il brusco risveglio: oltre il 51% dei britannici ha votato sì, il premier Cameron si è dimesso, la sterlina ha perso valore sul dollaro, i mercati asiatici hanno chiuso in calo e gli occidentali stanno vivendo un venerdi nero.

La moda, un settore che in Gran Bretagna vale 26 miliardi di sterline (dato 2014) , non è rimasta impassibile. La prima dichiarazione ufficiale arriva dal British Fashion Council, organizzazione no profit che promuove la moda britannica nel mondo e tra i propri storici partner di sviluppo ha sia il Comune di Londra sia lo European Regional Development Fund: «In qualità di organizzazione no profit che ha come scopo quello di promuovere l’industria britannica della moda nel mondo lavoriamo costantemente con molti soggetti governativi per assicurarci che il Regno Unito rimanga leader sia nell’industria della moda sia in quella creativa - ha spiegato Caroline Rush ceo del British Fashion Council - . Continueremo a fare questo con tutti i nostri partner, in patria e all’estero. Dal sondaggio che abbiamo condotto sui designer era emerso un dilagante supporto all’idea che il Regno Unito rimanesse in Europa e non ci sono dubbi in merito all’irritazione e allo sgomento di fronte ai risultati che avranno effetto sui nostri amici, partner e colleghi in Europa. Ora il nostro ruolo è quello di mantenere il Governo aggiornato sulle priorità della nostra industria e tenere aggiornati i designer su tutte le possibili ripercussioni che l’uscita del nostro Paese dall’Ue nei prossimi anni potrà avere».

Il peso del Regno Unito nel fashion system internazionale è duplice: la Gran Bretagna è un mercato chiave per la moda, a partire da Londra, considerata a buon diritto una piazza d’avanguardia in termini di tendenze e, insieme, una città cosmopolita per frequentazioni - nel 2014 ha accolto 17,4 milioni di turisti - e, di conseguenza, acquisti. È patria di importanti player del settore moda, dal fast fashion (Topshop e Asos) al lusso: oltre che a Burberry, storica casa di moda inglese, che ha risposto bene all’esito del referendum con il titolo a +1,53% in chiusura di giornata, la Cool Britannia ha dato i natali a brand come Alexander McQueen e Stella McCartney, ambedue nel portfolio del francese Kering. «Come business globale che si evolve in un mercato altrettanto globale - fanno sapere dall’azienda - Kering ha una lunga storia di adattamento ai cambiamenti, ricca di successi. Nonostante sia troppo presto per commentare le implicazioni di questo referendum sul mercato del lusso, Kering confida nella propria abilità di adattamento a questo nuovo contesto. Il gruppo continuerà ad accogliere con favore iniziative che sostengano la collaborazione sia essa commerciale, tra talenti o uno scambio di idee». Il gruppo francese, quotato a Parigi, ha chiuso la giornata di oggi con il titolo in calo del 7,39%. In discesa anche i titoli Lvmh (-6,54%); Tod’s (-7,82%); Prada (-3,51%)e Ynap (-9,70%).

Il Regno Unito è soprattutto il quarto cliente dell’industria tessile-moda made in Italy: nel 2015 secondo i dati Smi l’Italia ha esportato in Uk prodotti del settore tessile-moda per oltre 1, 8 miliardi di euro, pari al 6,2 % della quota export, e soprattutto in crescita del 10,5% rispetto all’anno precedente. Il 2015 ha messo a segno anche un’importante crescita dell’import italiano dal Regno Unito: il nostro Paese ha importato prodotti tessili-moda dallo Uk per 431 milioni di euro, in aumento dell’8% sul 2014.

Se l’impatto della Brexit non è stimabile, l’uscita della Gran Bretagna dall’Europa può essere vista come un’opportunità: «Se da una parte UK rappresenta il quarto mercato per export dei nostri prodotti - ha detto Claudio Marenzi, presidente di Smi - è anche vero che oramai Londra, come Parigi, rappresenta una destinazione di transito verso altri paesi e che gli impatti per le nostre aziende, se ci sarà, potrà essere alquanto limitato». L’addio del Regno Unito all’Europa potrebbe portare con sè qualche vantaggio: «L’uscita della Gran Bretagna dall'Europa ci fa perdere un avversario che sia nel passato che nel presente ha osteggiato la nostra industria: dalla battaglia sulle produzioni del Pakistan, al riconoscimento dello status di economia di mercato alla Cina, fino appunto al Made In», chiosa Marenzi.

È cauto nelle valutazioniCarlo Capasa, presidente della Camera Nazionale della Moda Italiana:  «Sicuramente Brexit è un processo che richiederà almeno due anni e ci auguriamo che si possano trovare accordi come quelli con la Norvegia che consentano di mantenere rapporti stretti sul piano commerciale. Ma siamo tuttavia preoccupati che l'Europa risponda invece duramente all'uscita della Gran Bretagna riportando in auge i dazi doganali così come anticipato oggi da Juncker. Speriamo che quanto è successo con la Gran Bretagna sia di monito per l'Europa per avere una politica meno rigorosa e più rispettosa dei ceti più deboli della popolazione che porti nel medio termine a una ripresa dei consumi interni.
Crediamo che per essere competitivi sul mercato globale sia importante avere un forte mercato interno di riferimento », ha detto Capasa in una nota.

Il presidente ha tracciato un quadro dei possibili effetti della Brexit sull’Italia: «Ci aspettiamo la riduzione delle esportazioni verso il Regno Unito e verso gli altri paesi europei più esposti agli effetti della Brexit, lieve positivo effetto sull'export verso gli altri paesi non Ue, ma anche la frenata della domanda interna e il calo del fatturato su Italia delle imprese della moda italiana, conseguentemente all'incertezza finanziaria e a possibili manovre restrittive del governo italiano». E degli effetti negativi in generale: «In Uk si avrà un calo dei consumi stimato tra l'1 e il 3% annui. Ci saranno difficoltà sullo scambio di forza lavoro, difficoltà sugli spostamenti. Le compagnie europee retail oriented potranno gestire l'omnichannel solo localmente e avranno problemi nello scambiarsi le merci. I centri creativi e i centri formativi, quali le scuole, grande polo d'attrazione e forza per la qualità della componente umana, potrebbero avere dei problemi poiché le persone europee che vi lavorano e vi studiano diventeranno extra comunitari».

(L’articolo è stato aggiornato alle 12:00 del 27 giugno 2016)

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