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Roberto Cavalli, dalla grandeur al rischio chiusura e oblio

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la parabola del marchio

Roberto Cavalli, dalla grandeur al rischio chiusura e oblio

Era il 2007 quando Roberto Cavalli iniziò a parlare di cessione della sua azienda. Ma negli anni successi e almeno fino al 2012 l’attenzione restò sulle sfilate, sugli accordi di licenza (occhiali, ristoranti, arredamento) e sul successo commerciale e di immagine del marchio, fondato negli anni 70 e diventato simbolo degli eccessi degli anni 80 e 90. Nel 2012 qualcosa cambiò: da quell’anno di Roberto Cavalli, inteso come stilista e come brand, si iniziò a parlare più per questioni economico-finanziarie, di governance e di ristrutturazione aziendale, che non per collezioni, sfilate, innovazioni stilistiche.

Sette anni fa infatti, dopo che già da almeno altri due anni, il dossier Roberto Cavalli rimbalzava tra scrivanie di investitori, advisor e banche d’affari, lo stilista e fondatore del marchio disse pubblicamente che avrebbe venduto l’azienda solo per un miliardo di euro e solo a chi gli avesse permesso di restare con una quota di minoranza e gli avesse garantito piena autonomia creativa. Fumantino e imprevedibile, da autentico “toscanaccio”, un giorno chiedeva un miliardo (cifra considerata fuori mercato da chiunque) e quello dopo definiva la sua stessa richiesta «una proposta indecente». A differenza di quanto accade nel famoso film dove a fare la proposta indecente era Robert Redford e ad accettarla Demi Moore – e si trattava di un milione, non di un miliardo – nessuno rispose mai ai desiderata di Roberto Cavalli.

Il gran rifiuto del 2014
Circa cinque anni fa in realtà una proposta interessante arrivò (si veda Il Sole 24 Ore del 13 agosto 2014): 500 milioni per una quota del 60%. A farsi avanti fu la banca d’investimenti Vtb Capital, che, si disse all’epoca, aveva alzato di almeno 50 milioni l’offerta fatta da Permira nei mesi precedenti. La proposta dei russi sembrava più allettante di quella del fondo, perché Permira, che in passato aveva avuto in portafoglio Valentino, a differenza di Vtb, avrebbe voluto in cambio il 100% di società e marchio, mentre i russi avrebbero lasciato allo stilista e alla moglie Eva, che con lui disegnava tutte le collezioni del marchio, una quota di minoranza. Alla fine non accadde nulla (in quell’agosto di rumor finanziari Cavalli si rese irreperibile, restando sul suo yacht in acque lontane dall’Italia) ed è stata forse l’ultima grande occasione sprecata.

Roberto Cavalli nel 2014 non era tra i grandi gruppi della moda italiana, ma il marchio era (ed è) molto conosciuto anche all’estero e nel 2013 aveva messo a segno una crescita ragguardevole, considerando il rallentamento che il settore aveva iniziato a sperimentare già nel secondo semestre dell’esercizio. Il fatturato era arrivato a 201 milioni (+9,3% rispetto al 2012), con un ebitda di 22,4 milioni (pari all’11,2% dei ricavi) e un patrimonio importante di negozi monomarca sparsi per le più importanti città nel mondo: nel 2013 la rete ne contava 179, 44 dei quali di proprietà.

I precedenti tentativi
Il 2014 era iniziato male per Roberto Cavalli, che all’epoca aveva 73 anni: Gianluca Brozzetti e Carlo di Biagio, all’epoca rispettivamente amministratore delegato e chief operating officer, se n’erano andati da un giorno con l’altro e per molti mesi a guidare l’azienda era stato un manager di fiducia dello stilista, Daniele Corvasce. Un approccio tra investitori russi e Roberto Cavalli, brand molto amato da sempre in Russia e dintorni, c’era già stato nel 2012, quando si era fatto avanti il gruppo Tashir. Anche allora, la trattativa iniziò ma sfociò in un nulla di fatto, benché Tashir, una conglomerata che faceva capo al magnate Samvel Karapetyan ed era attiva soprattutto nell’immobiliare e nelle costruzioni, avesse l’obiettivo dichiarato – con il progetto Casa Italia – di portare i marchi del made in Italy a due passi dalla Piazza Rossa e dal Cremlino.

Nel periodo 2012-2014 Roberto Cavalli e i suoi manager erano stati in trattative con società di private equity (oltre alla citata Permira, Clessidra e i britannici di Cvc) e gruppi finanziari (come Investcorp, base in Bahrain, che anni prima aveva una partecipazione in Gucci). L’idea di vendere o comunque trovare soci importanti era legata anche alla mancanza di eredi: il figlio di Roberto Cavalli, Daniele, al quale erano state affidate le collezioni uomo, se ne andò (bruscamente) a sua volta all’inizio nel 2014.

Nel 2015 il cambio di direttore creativo e la cessione a Clessidra
A meno di un anno dalle trattative con i russi, la direzione creativa del marchio passò, nel marzo 2015, allo stilista norvegese Peter Dundas e due mesi dopo, nel maggio 2015, il fondo di private equity Clessidra di Claudio Sposito acquisì il 90% del capitale della maison (il restante 10% rimase a Roberto Cavalli). Si stimò che la transazione fu chiusa a circa 390 milioni, pari a un multiplo di 16 volte l’ebitda 2014, quando il fatturato era arrivato a 210 milioni, in crescita di oltre il 5% rispetto al 2013. La squadra sembrava ottima: presidente fu nominato Francesco Trapani, all’epoca vicepresidente esecutivo di Clessidra, dopo essere stato per 25 anni amministratore delegato di Bulgari; come ceo fu scelto Renato Semerari, già presidente del gruppo multinazionale Coty, quotato a New York. Il potenziale percorso di crescita a fianco di Clessidra subì una prima battuta d’arresto nel gennaio 2016, con la scomparsa prematura di Claudio Sposito, a soli 60 anni. Alla fine dello stesso anno Trapani lasciò il fondo e a breve entrò con il 9% in Tages Holding.

Ennesimo azzeramento di vertici creativi e manageriali nel 2016
Nel 2016 Peter Dundas lasciò la direzione creativa e il suo posto rimase vacante per molti mesi: fu sostituito solo nel 2017 da Paul Surridge, stilista scelto da Gian Giacomo Ferraris, arrivato in Cavalli da Versace per orchestrare l’ennesimo turn around della sua vita (il manager aveva ristrutturato anche Jil Sander).

Ferraris aveva scelto Surridge (si veda Il Sole 24 Ore dell’11 maggio 2017) per la sua versatilità, visto che Roberto Cavalli negli anni era diventato un marchio di lifestyle, oltre che di moda: alle collezioni donna, uomo e bambino si erano aggiunte la casa e le linee più giovani, come Just Cavalli. Surridge aveva lavorato in Calvin Klein, Burberry, Jil Sander e Zegna, dove aveva seguito, con successo, il brand Z Zegna. Come sappiamo, è di pochi giorni fa l’annuncio (via Instagram sull’account personale dello stilista), dell’addio di Surridge, senza particolari spiegazioni.

Tentativo fallito
Ferraris era conosciuto come l’uomo dei turn around: negli anni aveva dimostrato di saper riportare all’utile aziende in crisi, ridando smalto ai rispettivi marchi, anche grazie a un tocco felice nella scelta dei creativi. Dovendo imprimere un nuovo corso a Jil Sander dopo l’uscita della fondatrice, nel 2005, Ferraris aveva personalmente scelto Raf Simons e nei sette anni successivi Jil Sander rifiorì dal punto di vista creativo ed economico.

Per Roberto Cavalli il 2016 – anno precedente all’arrivo di Ferraris e Surridge – si era chiuso in forte calo (-25%) rispetto al 2015. Il fatturato era arrivato a 155,2 milioni, con un ebitda negativo di 26,1 milioni e una perdita di 55,2 milioni. Il 2017 (si veda Il Sole 24 Ore del 3 marzo 2018) era andato leggermente meglio: il fatturato aveva arrestato il calo (-1,8% a 152,4 milioni), un buon risultato considerato che erano stati chiusi più negozi di quanti ne erano state aperti e che sono erano venute a mancare royalty perché Ferraris aveva scelto, guardando oltre l’esercizio fiscale, di internalizzare molte licenze, come underwear e beachwear. L’ebitda era previsto in pareggio nel 2018 e nel 2017 dal valore negativo di 26,2 milioni del 2016 si era passati a -7,1 milioni, con una posizione finanziaria netta positiva al 31 dicembre 2017 di circa 1,2 milioni.

Di nuovo sul mercato
Sia per i tempi tipici delle operazioni di private equity (sono passati quasi quattro anni dall’acquisizione da parte di Clessidra), sia, forse, per il rilancio più difficile delle attese, Roberto Cavalli è di nuovo sul mercato. Le ultime notizie (si veda Il Sole 24 Ore del 19 febbraio) parlano di tre offerte giudicate degne di nota sia sul lato economico sia sul lato industriale. Una di queste sarebbe quella del gruppo Otb (Only The Brave), holding di Renzo Rosso, già licenziataria del brand Just Cavalli dal 2011. Le altre offerte provengono sia da soggetti finanziari sia da gruppi industriali, mentre lo stilista tedesco Philipp Plein, che punta a un polo assieme al brand omonimo e al marchio Billionaire, sarebbe per il momento stato tenuto in subordine rispetto alle altre proposte ricevute. Per la fine di marzo si attendevano decisioni da un nuovo cda di Clessidra, ma le uniche notizie concrete sono arrivate dai sindacati.

Lo sciopero in vista del tavolo di crisi del 1° aprile
È di queste ore la notizia di uno sciopero alla sede Roberto Cavalli di Firenze, con un presidio in piazza dell’Unità d'Italia, dove la Regione ha convocato una serie di incontri sulla vertenza, che dovrebbero iniziare lunedì 1° aprile, come spiegato da Filtem Cgil e Femca Cisl, insieme alle Rsu del sito di Sesto Fiorentino (Firenze), che «denunciano la grave situazione di incertezza della Roberto Cavalli dovuta alla prematura decisione» di presentare «una richiesta di pre-concordato per l’azienda. Questo nonostante le trattative in corso (SIC) per la vendita al gruppo americano Blue Star Alliance». I sindacati spiegano, in una nota, «che l’apertura della procedura è prevista per il primo aprile» e che «potrebbe aprire la possibilità di consegnare agli ammortizzatori sociali l’immediato futuro dei lavoratori del sito, senza alcuna garanzia di continuità per il futuro». Per questo chiedono di «scongiurare il rischio di una cassa integrazione» e spiegano che «non saranno accettate soluzioni che comportino decurtazioni salariali».

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