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Cresce l’attesa per Uniqlo a Milano, che da oggi facilita l’e-commerce dall’Italia

Un po’ come succedeva negli anni 80 e fino a metà degli anni 90 con Ralph Lauren e come poi accadeva nella prima metà degli anni Duemila con Abercrombie&Fitch, chi parte per gli Stati Uniti o il Regno Unito riceve spesso “liste della spesa” di amici e parenti per prodotti Uniqlo. Se la destinazione è il Giappone, dove il marchio è nato, nel 1984, e ha da decenni una presenza capillare, la lista della spesa (o dei desideri) si allunga, perché l’assortimento che si trova in Giappone è imparagonabile a quello di New York o Londra e sono molte le collezioni che in Europa o in America non arrivano neppure. Il numero di aprile dell’Atlantic, una delle più prestigiose riviste americane, che grazie alla qualità della scrittura e dei reportage sopravvive - e bene - al ciclone internet, ha pubblicato un lungo articolo intitolato «Why Urban Millennials Love Uniqlo. Will the rest of America learn to love it too?» («Perché i Millennials che vivono nelle grandi città amano Uniqlo. Imparerà a farlo anche il resto dei consumatori americani?»).

La domanda potrebbe porsi anche per il nostro Paese: dopo l’estate aprirà il primo punto vendita italiano di Uniqlo, sarà a Milano, nella centralissima piazza Cordusio, a metà strada tra piazza del Duomo e piazza Castello, che ospitano due dei monumenti più famosi della città, la cattedrale e il Castello Sforzesco, forse meno noto come simbolo di Milano, ma altrettanto ricco di storia e perfettamente agibile. Tra Duomo e Castello c’è una grande strada pedonale, via Dante. La zona sarà tra le più attraversate della città nella settimana del design che si è aperta oggi, di fatto: domani si inaugura la fiera a Rho, ma Milano è già in pieno Fuorisalone. Chiunque passerà da piazza Cordusio vedrà le dieci vetrine dello spazio che ospiterà Uniqlo tappezzate con il logo del brand e la promessa «coming soon». Soon (presto) significa quasi certamente dopo l’estate: il negozio sarà disposto su tre piani per un totale di 2.500 metri quadrati che ospiteranno le collezioni donna, uomo e bambino.

Un assaggio online
Uniqlo offre già da parecchi anni la possibilità di comprare online dal suo sito europeo, che ha base operativa e logistica a Londra. È molto efficiente, ca va sans dire, trattandosi di un’azienda giapponese, ma da oggi i clienti italiani avranno un servizio ancora più efficiente, par di capire. Agli utenti registrati sulla piattaforma europea, è arrivata una mail in cui si spiega che l’id e la password sono stati trasferiti sulla neonata piattaforma italiana e che ora servizio pre e post vendita e consegne saranno più facili per chi abita in Italia.

L’anteprima delle collezioni in maggio
Un altro segnale di quanto Uniqlo stia puntando sul mercato italiano è arrivato, sempre oggi, dall’ufficio stampa che gestisce l’immagine del brand nel nostro Paese. A metà maggio i giornalisti sono convocati a visionare le collezioni dell’autunno-inverno prossimo in uno spazio molto grande e particolare di Milano, La Pelota di via Palermo. Guardacaso, un altro spazio e un’altra zona che saranno tra i più visitati durante la settimana del design. Due indizi non fanno una prova. O forse sì: certo è che Uniqlo cercherà di accelerare l’apertura del molto atteso flagship store di piazza Cordusio. In fondo esiste un legame abbastanza chiaro con il mondo del design e lo “stile” Uniqlo. O almeno, tra il design di scuola minimalista, nordica e, volendo, da Bauhaus (“less is more”): il segreto del successo del marchio giapponese è legato alla sua essenzialità. Oltre che al prezzo (per molti capi allineato con marchi come Zara o Cos, ma superiore a quelli di H&M) a conquistare è il rapporto con la proverbiale qualità giapponese.

Solo apparentemente anonimo
L’articolo dell’Atlantic ricorda che Uniqlo sta per Unique Clothing Warehouse (letteralmente, fabbrica di pezzi di abbigliamento unici), una definizione ironica se non paradossale, «per un marchio che tutto fa meno che pezzi unici». Una persona, scrive il magazine americano, può vestirsi da capo a piedi con capi e accessori Uniqlo senza che nessuno si accorga del suo total look. In un’industria della moda dove loghi ed etichette stanno vivendo una seconda giovinezza, un simile “anonimato” potrebbe sembrare uno svantaggio. Ma non lo è: primo, perché i Millennials (i nati dopo il 1980, nativi digitali, diventati maggiorenni col nuovo millennio e già oggi responsabili di un terzo degli acquisti di prodotti i fascia medio-alta e alta) sembrano orientati, almeno in Occidente, verso un approccio meno ossessionato dal brand e più influenzato dalla reputazione di un’azienda e dall’idea di consumo responsabile. Secondo, perché le generazioni successive, specie la Gen Z (i nati dopo il 2000, compagni di strada e di pensiero della mitica Greta Thunberg) sembrano badare molto più alla sostanza che alla forma, alla funzionalità più che agli status symbol. Anzi, per loro gli status symbol stanno diventando le azioni che rispecchiano un ideale. Uniqlo ben si adatta. L’alta qualità garantisce lunga durata (la Gen Z sa che l’industria della moda è la seconda più inquinante al mondo dopo quella dell’energia); l’essenzialità del design rispecchia una chiarezza di pensiero, quell’ordine tra esterno e interno tipico della cultura e della filosofia giapponese; il prezzo è giusto. Non basso al punto da far pensare che lavoratori siano stati sfruttati, ma non alto al punto da far pensare che ci sia chi intasca margini esagerati facendo leva sul valore intangibile e tutto sommato opinabile, per la Gen Z, del brand. Last but not least, Uniqlo non assomiglia certo a un’uniforme. Non è un marchio noioso né ripetitivo. Ha linee di capi tecnici adatti allo sport o a climi estremi. È famoso per i piumini ultraleggeri da usare da soli, uno sopra all’altro o come strato di una look “a cipolla”. Infiniti sono gli abbinamenti di colore e la catena è stata “furba” a sufficienza da avviare e proporre decine di collaborazioni con illustratori, designer e street artist.

Capsule con stilisti, ma in «stile Uniqlo»
Tra i creativi che hanno collaborato con la catena giapponese ci sono Jil Sander (proprio lei, la stilista tedesca, non il marchio che oggi porta il suo nome), Alexander Wang, Jun Takahashi, Tomas Maier (ex direttore creativo di Bottega Veneta), Inès de la Fressange (arrivata all’ottava collezione per Uniqlo, un record), J.W. Anderson, l’enfant prodige della moda britannica (direttore creativo di Loewe e del marchio che porta il suo nome e appena entrato a far parte del board del Victoria&Albert Museum). Per non parlare del testimonial più famoso, Roger Federer, tennista gentiluomo che nel 2018 per Uniqlo (e un contratto da - si dice - 300 milioni di dollari in dieci anni) ha abbandonato Nike, che era al suo fianco da 24 anni. Considerato un uomo elegante fuori e dentro dal campo, per il suo stile atletico ma anche per la sobrietà dei comportamenti, Federer ha di recente dichiarato che le “divise” Uniqlo spiccano sui campi, perché «in giro (sic) ci sono molti completi da tennis bruttissimi».

L’impero del fondatore
In Giappone e sempre di più in Cina il fondatore di Uniqlo, Tadashi Yanai, è molto conosciuto e ammirato. Ieri il South China Morning Post gli ha dedicato un profilo («Meet golf-mad billionaire Tadashi Yanai, Uniqlo founder and Japan's richest person»), in cui si racconta anche della sua passione per il golf (possiede due campi nel suo Paese) e delle sue origini. Il padre aveva una piccola bottega da sarto, oggi Tadashi Yanai ha 70 anni, è l’uomo più ricco del Giappone, con un patrimonio stimato di 24,8 miliardi di dollari ed è presidente di Fast Retailing, la società quotata alla Borsa di Tokyo che controlla Uniqlo. Il claim della società è: «Changing clothes. Changing conventional wisdom. Change the world» («Cambiamo l’abbigliamento. Cambiamo il comune sentire. Cambia il mondo», potremmo tradurre). Le previsioni per il 2019 sono di arrivare a 2.300 miliardi di yen (18,32 miliardi di euro) di ricavi e 3.641 negozi nel mondo.

Mercati del futuro
Di pochi giorni fa è la notizia del lancio di una linea di “modest fashion”, pensata cioè per le donne dei Paesi dove prevale la religione musulmana: la rivista Emirates Woman ha dedicato alla collezione un articolo, «Hijabi designer Hana Tajima joined forces with Uniqlo to create a modest line», in cui si ricorda che Uniqlo fu il primo marchio globale a lanciare una linea di hijab, nel 2015. Poi c’è l’Europa, naturalmente: l’espansione nel Regno Unito e in Francia è a buon punto, nel 2018 sono stati aperti i primi negozi in Spagna e Olanda (Barcellona e Amsterdam), quest’anno arriveranno Milano e Copenhagen. E forse, chissà, anche una capsule disegnata da uno stilista italiano. O da un designer, magari incontrato durante la settimana del mobile.

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