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Non solo Starbucks. Le grandi catene alla conquista del mercato italiano (partendo da Milano)

Starbucks e non solo. Catene americane alla conquista del mercato italiano, ma anche viceversa: insegne nate e cresciute nel nostro Paese che affrontano il mercato più difficile (e tra i più grandi) che esista, gli Stati Uniti. E ancora: oltre alle catene del food, ci sono quella della moda, del lusso e degli accessori. Brand americani che tentano l’avventura italiana (e nell’abbigliamento può essere un’autentica sfida) e naturalmente simboli del casualwear e dello sportswear made in Usa che cercano di farsi strada nelle nostre città o centri commerciali, a seconda del posizionamento.

L'arrivo di Starbucks a Milano è lo spunto per allargare lo sguardo: il fermento maggiore in questo momento è proprio nel food e in particolare in quello che una volta chiamavamo “fast food” e che oggi è in realtà meno veloce e di qualità e varietà sicuramente maggiore rispetto al passato. La seconda notazione da fare è la centralità di Milano: come si è detto e letto spesso, uno degli effetti positivi di Expo 2015 è stato di “rimettere la città sulle mappe turistiche”. A distanza di tre anni continua il positivo andamento del turismo: se una volta si trattava soprattutto di visitatori legati al business e allo shopping di lusso, ora cresce la percentuale di viaggiatori spinti da motivi culturali e sono aumentati i Paesi di provenienza, come può notare chiunque passeggi per il centro della città o, ad esempio, nel quartiere di Brera, dove si sentono moltissime lingue, alcune difficili da riconoscere o almeno poco familiari, come quelle del Nord Europa.

Ma torniamo a Starbucks &C.: il tema per la catena di caffetterie sarà trovare la formula giusta per conquistare il cuore di un popolo di affezionati del bar, invenzione italiana che nessuno, finora, ha osato imitare. Gli americani saranno però favoriti dalla location, molto centrale e frequentata anche da turisti, e dall'offerta di cibo, accanto al caffè. Nel centro di Milano infatti non è facilissimo trovare panini o piatti veloci di qualità, non volendo spendere decine e decine di euro da Cracco, in Galleria. Non è casuale che negli ultimi anni siano cresciuti i punti vendita di Spontini (pizza a crosta alta) e i “vecchi” Autogrill abbiano innalzato il livello dell'offerta e che le catene di gelaterie si siano moltiplicate sulla scia di Grom, il “gelato come una volta”. Con alterne fortune, peraltro, perché non è facile imitare la formula creata da due giovani torinesi e poi inglobata da Unilever.

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Sia Grom sia Spontini sono impegnati nello sviluppo internazionale e lo stesso vale per la catena Panino giusto, che offre sandwich gourmet e che in Italia ha avuto, negli ultimi cinque anni, un forte rilancio e ha iniziato ad aprire all’estero. Per contro, Milano e altre grandi città hanno visto l'apertura di catene americane come Domino's Pizza e Kfc (Kentucky Fried Chicken). Sempre da Milano è partita l'espansione europea di JollyBee, la più grande e famosa catena di pollo fritto e affini delle Filippine e tra le più note e diffuse in Asia. Dall'apertura, avvenuta pochi mesi fa, a ridosso di piazza del Duomo, per entrare nel ristorante (la formula è quella del fast food alla McDonald's), a quasi ogni ora si fa la coda e nel week end arrivano filippini da tutta Italia per ritrovare con un pizzico di nostalgia il gusto del loro Paese.

Sempre a Milano e in altre grandi città – tornando alla scarsità di offerta di panini, insalate e altri piatti pronti veloci – si stanno sviluppando catene come Panini Durini, Foodies e Juice Bar. Poi c'è la nuova moda delle “pokerie”, specializzate nel tipico piatto hawaiano fatto di insalata, frutta e pesce. La particolarità è la “personalizzazione” dei piatti, con aggiunta di ingredienti a scelta su una base di insalata verde.

A Milano stanno funzionando molto bene inoltre i primi punti vendita di Wagamama, una sorta di fast food “fusion” di ispirazione asiatica che ha già alcune vetrine fisiche ed è presente anche su piattaforme come Deliveroo e Giovo. Sempre dall’estero già da qualche anno sono arrivate le catene specializzate in hamburgher, come Mama Burgher e, imminente a Milano, Five Guys.

Dall’Italia all'estero, come abbiamo detto, ci sono i casi Grom, Panino Giusto, Spontini, Marchesi (pasticceria di proprietà del gruppo Prada) e Cova, altra pasticceria di lusso nata a Milano oltre cento anni fa e oggi di proprietà del gruppo francese Lvmh, che ha aperto da pochi mesi – con enorme e immediato successo – a Montecarlo.

Lo scenario cambia per la moda e in particolare per il segmento casual: qui, negli ultimi anni, siamo stati terra di conquista. Il caso più famoso è quello di Abercrombie&Fitch, catena americana che aprì un negozio gigantesco a Milano nel momento della sua massima espansione globale, salvo veder fortemente ridimensionate le aspettative (e forse presto anche la metratura del centralissimo negozio a pochi passi da piazza San Babila) perché il brand è – molto semplicemente – passato di moda e soppiantato, soprattutto tra i più giovani, da altri marchi, non necessariamente meno cari ma più “freschi”.

Non molto felice l'avventura di Banana Republic, marchio del gruppo Gap, che ha chiuso il punto vendita di Milano, in corso Vittorio Emanuele. Difficile pure l'esordio di Tous, catena di bigiotteria, gioielleria e accessori spagnola che tentò un primo approccio in Italia anni fa. Ora ci sta riprovando, ma nel secondo tentativo deve fare i conti con Pandora, brand danese che negli ultimi cinque anni nel nostro Paese è cresciuto in modo capillare.

L'attesa maggiore ora è per Uniqlo, colosso giapponese del fast fashion al quale, in Europa, mancava praticamente solo l'Italia. Come accadde in passato per Ralph Lauren, Brooks Brothers e altri marchi americani orami da tempo acquistabili in Italia, chi andava in Francia, Regno Unito, Germania o Stati Uniti spesso doveva partire con liste di richieste di acquisti di prodotti Uniqlo da parte di amici e parenti. Il primo punto vendita sarà a Milano e in questo caso i competitor sono marchi come Zara (gruppo Inditex) o Cos (gruppo H&M).
Fermento anche per catene di abbigliamento “super low cost” come Primark e Kiabi (francese), impegnate però in uno sviluppo nei centri commerciali, non nei centri storici.

All’estero stanno investendo molto gli italiani di Freddy (abbigliamento), Nau! (occhiali) e il gruppo Calzedonia, che a New York e altre città americane è presente con insegne Calzedonia e Intimissimi, mentre ha già colonizzato da tempo Londra anche con negozi a insegna Tezenis. Le catene italiane, anche quelle di maggior successo come, appunto, Calzedonia, devono fare i conti con la crescita bassa del mercato italiano e per questo cercano sbocchi all’estero. Per chi viene da noi invece, soprattutto se sceglie le città più famose, il vantaggio è duplice: intercettare clientela internazionale e riuscire a conquistare un cliente, quello italiano, tra i più “difficili” al mondo. Che si tratti di moda o di cibo, se si ha successo in Italia si può averlo ovunque. O, se altrove il successo è già arrivato, il test del mercato italiano può aiutare a migliorarsi e farsi venire nuove idee. Del resto il fondatore di Starbucks lo ricorda sempre: l’idea per le sue caffetterie gli venne proprio in Italia, alla fine degli anni ’80.

Il convitato di pietra in questo quadro è l'e-commerce: per il cibo e le bevande fresche non rappresenta un vero competitor. Internet serve anzi per potenziare le consegne a casa, non necessariamente a scapito del servizio fisico. Più interessante riflettere sull'abbigliamento: nonostante la crescita degli acquisti on line e la possibilità – che dieci anni fa di fatto non esisteva – di acquistare da un pc o da uno smartphone sui siti di, per esempio, Uniqlo, le aziende sentono la necessità di un avamposto fisico. Come dire che l’esperienza fisica è ancora preziosa. E può essere il volano migliore dell'e-commerce. L'augurio è che si instauri un circolo virtuoso: i negozi dei centri storici devono continuare a esistere perché sono parte dell'economia delle città e del tessuto sociale. La concorrenza di internet può essere positiva, portando i brand a migliorarsi e a offrire davvero quella “shopping experience” che tutti teorizzano e che nel mondo reale può dare emozioni che lo shopping sul web non potrà mai offrire.

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