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Lusso italiano in crisi di crescita

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studio pambianco

Lusso italiano in crisi di crescita

Sono tre anni che i principali gruppi italiani del lusso, nel loro complesso, non crescono in termini di fatturato e perdono redditività. Mentre, oltre i confini nazionali, i conglomerati e i big brand che “valgono” tre volte tanto viaggiano a velocità sostenuta su entrambi i fronti. La ragione? Le dimensioni limitate: essere una billion company, un tempo considerato un traguardo importante per le aziende italiane, spesso di stampo familiare, in alcuni casi addirittura “one man company”, non è più sufficiente. Per affrontare un mondo globalizzato e digitalizzato serve più forza.

A dipingere questo scenario è un confronto tra i principali gruppi del lusso italiani ed esteri realizzato da Pambianco Strategie d’impresa che da una parte mette 15 aziende del lusso made in Italy la cui proprietà o il cui azionista di maggioranza è italiano (Luxottica, Prada, Armani, Max Mara, Otb, Moncler, Ferragamo, Dolce&Gabbana, Zegna, Safilo, Tod’s, Cucinelli, Furla) o nel caso di Valentino, straniera ma indipendente dai conglomerati, e dall’altra sei tra gruppi e aziende di proprietà internazionale (Lvmh, Richemont, la divisione lusso di Kering, Hermès, Tiffany, Burberry).

Se tutti i soggetti, di cui sono state analizzate le performance di fatturato e redditività nel triennio 2016-2018, sono attivi nel mondo del lusso e su scala internazionale, il primo elemento di discrimine è il peso in termini di valore: il fatturato aggregato 2018 delle 15 realtà italiane è di 27,5 miliardi di euro, meno di un terzo dell’aggregato dei sei gruppi internazionali che arriva poco sotto gli 87 miliardi. Il confronto sulle dimensioni è ovviamente sbilanciato: il primo gruppo internazionale per fatturato è il gigante Lvmh che ha chiuso il 2018 con 46,8 miliardi euro di ricavi, di per sè quasi il doppio del fatturato delle quindici italiane prese in esame, mentre l’ultimo è Burberry, che arriva poco sotto i 3 miliardi; in Italia gli unici gruppi che superano quest’ultima cifra sono Prada (3,1 miliardi) e Luxottica (8,9 miliardi; nel 2018 si è fusa con la francese Essilor), rispettivamente seconda e prima nella classifica per fatturato. «Le realtà in mani italiane - spiega il ceo David Pambianco - sono troppo piccole: il fatturato medio è 1,8 miliardi contro 14,5. Le dimensioni ridotte sono un ostacolo alla crescita perché limitano gli investimenti, decisivi in un contesto economico come quello attuale».

I gruppi stranieri non sono solo più grandi, ma anche più redditizi: l’Ebitda “aggregato” nel 2018 ha toccato quota 23 miliardi, con un margine del 26,6 per cento. Quello dei gruppi italiani è quasi 10 punti in meno: nel 2018 era il 17,2%, con un Ebitda di 3,6 miliardi.

Prese le misure dei due agglomerati, il campanello d’allarme per il “sistema italiano” arriva dall’andamento: tra il 2016 e il 2018 il fatturato aggregato delle 15 aziende è rimasto sostanzialmente stabile, mentre quello dei gruppi stranieri è salito di quasi 20 miliardi di euro (+27,6%). «Le uniche realtà che sono cresciute più o meno a tassi costanti - commenta Pambianco -sono Moncler e Cucinelli, marchi “freschi” che hanno saputo rinnovarsi continuamente»

Lo stesso vale per la redditività: «Per le italiane, nel triennio, è passata da quasi 5 miliardi a 3,6, con il margine in calo dal 18% al 17,2%. Oltre confine, invece, c’è stata una crescita: da 16,8 miliardi a 23 miliardi», spiega il ceo.

Considerando che non solo molti dei brand che trainano i conti dei gruppi stranieri sono italiani, ma anche che i gruppi in questione hanno scelto manager e direttori creativi italiani per crescere(come l’accoppiata Michele-Bizzarri da Gucci o Gobbetti-Tisci da Burberry), la riflessione sul settore è d’obbligo: cosa dovrebbero fare le aziende di proprietà italiana per avvicinarsi ai ritmi di crescita delle competitor d’oltre confine? «Vendere, come ha fatto Versace, una delle aziende in classifica, lo scorso anno. Oppure creare un polo del lusso nazionale - chiosa Pambianco - per spingere l’acceleratore sugli investimenti. Per ora anche chi ha tentato purtroppo non ce l’ha fatta, ma il futuro, stando così le cose, è dei grandi gruppi».

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