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L’Isis è un mostro ma non deve farci paura

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L’ANALISI

L’Isis è un mostro ma non deve farci paura

Per un ministro cauto come Paolo Gentiloni, la dichiarazione è piuttosto forte. Un ministro distintosi nei suoi primi quattro mesi alla Farnesina più per l'understatement che per un'ansia di visibilità. In Libia «L'Italia è pronta a combattere in un quadro di legalità internazionale». Il Paese che per tradizione, nelle missioni internazionali occupa attivamente le retrovie e se partecipa, non spara, d'improvviso sembra pronto alla prima linea.

La motivazione è più che valida per come viene espressa da Gentiloni e fatta propria da tutti i partiti, leghisti compresi: «Lo stato islamico a 200 miglia marine» dalle nostre coste «rappresenta una minaccia». E' evidente che non possiamo stare con le mani in mano contro un regno del male così assoluto, che distrugge tutto ciò che incontra di diverso da lui: così radicalmente nemico nei suoi comportamenti da sembrare finto, a volte. Essendo la Libia geograficamente vicina, è giusto che l'Italia prenda tutte le misure necessarie per la sua sicurezza, incominciando a sensibilizzare e mobilitare la comunità internazionale contro il disfacimento della Libia e le sue conseguenze.

Una di queste sono certamente i terroristi dell'Isis. Ma, agendo, dovremmo soppesare due questioni. Come dice Arturo Varvelli, esperto di Libia dell'Ispi, l'Istituto di studi di politica internazionale di Milano, per intervenire occorre avere sul posto qualche amico sicuro. Sul campo sono più d'uno i governi e le milizie che vorrebbero averci come alleati. Questa osservazione spinge alla prima valutazione: essere certi di non andare a combattere una guerra degli altri.

Per noi il problema è la minaccia dell'Isis. Semplificando un quadro fattosi già più complesso, per i libici di Tobruk la priorità è eliminare i Fratelli musulmani di Tripoli, che sono islamisti ma non terroristi; per i libici di Tripoli, più del califfato, il nemico sono i “laici” di Tobruk. A seguire ci sono i loro alleati regionali: Egitto ed Emirati con Tobruk, Turchia e Qatar con Tripoli. Per gli uni e per gli altri, al momento il califfato è solo una delle fazioni della mischia libica.

Chi riuscisse ad avere dalla sua parte l'esercito italiano o l'Onu farebbe bingo ma chiunque scegliessimo, rischieremmo di trovarci a combattere la sua guerra, non la nostra. E' lo stesso problema degli americani in Iraq e Siria: anche per loro la ragione dei bombardamenti è distruggere il califfato. Lo è relativamente per gli alleati locali di quella guerra.

La seconda questione è valutare quanto grave sia in Libia la presenza dell'Isis. C'è una certa dicotomia fra il grande spazio dato alla conquista di Sirte dai nostri giornali e dalle tv, e il silenzio quasi assoluto degli altri media internazionali. I servizi segreti italiani sono notoriamente i più informati in Libia: il ministro Gentiloni avrà dunque lanciato l'allarme a ragion veduta. L'Isis è una minaccia ovunque agisca e i suoi epigoni possono portarla nelle nostre città, come è stato dimostrato a Parigi. Ieri la sua radio Mosul ci ha chiamati «l'Italia crociata». Ma non sono l'esercito della Germania nazista: la scorsa estate la loro forza sul campo in Iraq era stata valutata numericamente inferiore alle forze armate della Repubblica Dominicana.

L'Isis è un mostro che va schiacciato al più presto possibile ma è forse più vulnerabile di quanto non l'abbiamo reso invincibile noi, nel nostro immaginario collettivo, dando peso ad ogni messaggio delle sue orribili azioni che posta sul web. Fino ad ora il califfato ha conquistato solo stati falliti e le nostre menti terrorizzate dalla sua pubblicità grandguignolesca. Il primo imperativo per battere un nemico è non averne paura.

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