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L'ottimismo va coltivato con cautela

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l’impatto del qe

L'ottimismo va coltivato con cautela

Cosa cambia con il quantitative easing? Le nuove previsioni Bce, annunciate da Mario Draghi, riassumono le prospettive di Eurolandia molto bene.

Migliorano le prospettive sulla crescita, che passerà dall'1,5% del 2015 all'1,9% del 2016 e al 2,1% del 2017. I prezzi, che tendono a reagire con un po' di ritardo alle sollecitazioni della politica monetaria, resteranno fermi quest'anno, soprattutto a causa del calo del petrolio, ma potranno accelerare all'1,5% nel 2016 e all'1,8% nel 2017.
Non è tutto effetto degli acquisti di titoli ma, come ha spiegato Draghi nella conferenza stampa, queste previsioni tengono conto di tutto il programma di quantitative easing: 1.140 miliardi di liquidità destinata a comprare titoli di Stato e alcuni titoli privati a un ritmo di 60 miliardi al mese, a partire da lunedì fino a settembre 2016, «e anche oltre se necessario».

È anche per questo motivo che la Banca centrale europea, ieri, è apparsa un po' più ottimista: i segnali di un recupero ormai non mancano. Bene, perché quelle proiezioni in realtà non permettono di star tranquilli, e non solo per l'incertezza che domina sempre le previsioni e che aumenta man mano che ci si allontana nel tempo. Il problema è che da solo il quantitative easing sembra non bastare.
In una crisi di debito come quella attuale, quello che conta è il pil nominale. In Eurolandia dovrebbe crescere più velocemente: nelle previsioni si passa dall'1,5% del 2015 al 3,4% del 2016 e al 3,9% del 2017. La media storica, prima della crisi, era del 4,5%, un numero non certo casuale. Corrisponde alla crescita “di riferimento” della massa monetaria M3, adottata dalla Bce proprio per segnalare agli economisti che si trattava dell'obiettivo “implicito”, quasi nascosto, scelto per il pil nominale.

È anche il livello al quale gli altri numeri che dominano l'Unione monetaria acquistano senso. Un Paese che cresca a quel ritmo e abbia ogni anno un deficit pari al 3% del pil - il massimo consentito - vedrà il suo debito calare molto lentamente ma automaticamente verso il 60% del pil. Tenuto conto che l'inflazione “ottimale” è definita dalla Bce al 2%, per raggiungere un pil nominale in crescita del 4,5% annuo, occorre che il pil reale cresca del 2,5% annuo. Esattamente come è accaduto prima della crisi.
È fondamentale, a questo punto, tornare almeno a quei livelli. Se non al di sopra, come argomentano alcuni economisti di diverso orientamento politico, per recuperare il terreno perduto con la recessione. Il quantitative easing, quindi, potrebbe non farcela, e andare “oltre” il settembre 2016 potrebbe risultare necessario.

Ci sono pochi dubbi però che gli acquisti di titoli siano lo strumento più adatto. In una crisi di debito come questa - la Banca dei regolamenti internazionali ha parlato di balance sheet recession, recessione da bilanci - è sui conti delle banche e delle aziende che occorre intervenire. Altrimenti è tutto inutile.
Acquistare titoli di Stato, allora, non serve tanto ad abbassare i rendimenti, i tassi di interesse sulle scadenze tra i due e i 30 anni. Questo calo è sicuramente uno degli effetti del quantitative easing, ma questi rendimenti sono già piuttosto bassi e, per questa via, l'effetto potrebbe essere limitato. Il Qe piuttosto serve a liberare i bilanci delle banche dai titoli di Stato, rendendoli anche meno appetibili. In questo modo le aziende di credito - che, non si dimentichi, hanno superato l'esame dell'asset quality review o hanno dovuto risanare i propri capitali - potranno dedicarsi ad altro: a finanziare le imprese, renderle più solide, più capaci di fare investimenti.

Almeno, così si spera: negli Stati Uniti, dove il canale bancario è enormemente meno importante che in Eurolandia, il gioco ha funzionato e ha risanato l'economia. La Bce ha anche tenuto in piedi tutte le precedenti misure di politica monetaria, tra cui le Tltro, le operazioni che prestano alle banche liquidità a lungo termine al fine di dar credito alle imprese.
Il Qe non si ferma qui. Aumentare l'offerta di euro dovrebbe anche far calare i cambi della moneta comune (euro/dollaro, euro/sterlina, e così via). Molto dipende però dalle scelte delle altre banche centrali (rispettivamente quella americana, quella britannica...) che dovrebbero aumentare i tassi o almeno avere una politica monetaria meno espansiva di quella della Bce. Con un euro meno forte, le esportazioni - fuori da Eurolandia - dovrebbero essere incentivate, mentre le importazioni dovrebbero rincararsi, spingendo verso l'alto l'inflazione. Fondamentali, in tutto questo, sono le aspettative. I mercati, e quindi l'euro, si muovono guardando al futuro. Le imprese e le banche, nel momento in cui pianificano gli investimenti, si chiedono dove saranno crescita e inflazione almeno due anni dopo.

Il Qe mette dunque in moto molte cose ma non basterà, a giudicare dalle previsioni della stessa Bce. Occorre fare di più, ma non è chiaro chi debba farlo. Alcuni economisti credono che il pil nominale sia governato dalle banche centrali e che tocchi a loro raggiungere l'obiettivo. In questo senso, gli acquisti di titoli di Stato - che, in fondo, porteranno il bilancio della Bce ai livelli del 2012, non oltre - dovrebbero essere molti di più.
La Bce non è d'accordo. Tocca ai governi e alla Ue, dice. Il ragionamento è lineare: quel 4,5% ottimale di pil nominale è anche il frutto di una crescita del pil reale del 2,5%, una crescita che non deve generare inflazione: è la crescita potenziale, definita dalla struttura dell'economia. Quella di Eurolandia - e dell'Italia - non è più così alta: la crisi ha distrutto capacità produttiva, che va recuperata. Per questo la Bce chiede ai governi riforme dei mercati dei prodotti e del lavoro, bilanci in ordine che sostengano però la crescita, e investimenti pubblici. In ogni caso è un anello che manca.

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