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La grande riserva della jihad

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Medio Oriente

La grande riserva della jihad

Tremila tunisini partiti in Siria per combattere nelle file dell'Isis. Nessuno Stato può vantare questo triste primato. Perché la “Tunisia della speranza”, il solo Paese travolto dalle rivolte arabe ad aver completato un processo di transizione democratica, è divenuto una fucina di jihadisti?

Amareggiati per il cattivo andamento dell'economia, spaventati dall'ascesa del jihadismo, molti elettori tunisini amavano comunque sottolineare come la Tunisia fosse il solo Paese investito dalle primavere arabe ad aver avviato un vero processo di transizione democratica. Era il 26 ottobre, giorno delle elezioni parlamentari, le seconde dalla caduta del dittatore Ben Ali: dalle urne era uscito un risultato sorprendente: l'eterogenea coalizione “laica” di Nidaa Tunis aveva trionfato sul partito islamico moderato di Ennahda.
Dal quartiere benestante di Mituelville, al degradato sobborgo di Douar Icher, noto per essere una roccaforte salafita, la conversazione con gli elettori cadeva spesso su due argomenti: il rilancio dell'economia, sempre più in difficoltà, e la sicurezza. Il jihadismo che aveva contagiato anche il Paese conosciuto fino a qualche anno fa per essere il più laico tra quelli del mondo arabo, era quindi vissuta dalla maggior parte dei tunisini come un corpo estraneo, un trauma nazionale.

La politica populista di Ennhada in economia non aveva pagato. Ma ancora di meno quell'atteggiamento troppo indulgente nei confronti dei movimenti salafiti-jihadisti rafforzatisi, al di là di ogni previsione, negli ultimi due anni, come Ansar al-Sharia. Ecco perché davanti alla minaccia del terrorismo, e all'esercito di combattenti tunisini partiti alla volta della Siria, la popolazione ha prima reagito con paura , poi si è unita. Le successive elezioni presidenziali avevano confermato il processo di transizione, con l'elezione, in dicembre dell'anziano ex premier Beji Caid Essebsi, alla Presidenza della repubblica. Un successo salutato dalla Comunità internazionale. Tanto che l'Economist aveva definito “il Paese dell'anno”, il laboratorio politico del mondo arabo. Mancava solo il Governo. Ed ecco che il 5 di febbraio ne veniva creato uno in cui sono inclusi anche membri di Ennahda. Quel governo di Unità nazionale che tutti auspicavano e che fatica a prendere forma in altri Paesi arabi.

Già in ottobre, tuttavia, si percepiva come il fuoco dell'Islam radicale covava ancora sotto la cenere. Pronto a infiammare di nuovo il Paese . I campanelli d'allarme, o i precedenti, erano numerosi. Già poco prima delle elezioni di ottobre il blitz delle forze speciali contro una cellula di jihadisti alle porte di Tunisi, culminato nella morte di diverse persone, aveva turbato l'opinione pubblica già scossa dall'assassinio dei due noti leader politici,Choukri Belaid e di Mohammed Brahmi, nel febbraio del 2013, e dalle successive manifestazioni contro i media e l'università di Tunisi. Le autorità tunisine sostengono che siano tornati finora 500 combattenti dalla Siria e di aver impedito ad 10mila potenziali jihadisti di lasciare il territorio nazionale.
In verità il salafismo, anche jihadista, in Tunisia esisteva già da prima. Semplicemente, come avvenuto in Libia, Ben Ali lo aveva stroncato con il pugno di ferro. Anche nei confronti di movimenti islamici moderati, come Ennahda, costola dei Fratelli musulmani dichiarata illegale.

Rispetto poi al fenomeno europeo dei foreign fighters , in Tunisia l'Islam radicale ha trovato un habitat congeniale nelle periferie delle città, dove la disoccupazione, soprattutto tra i giovani, ha toccato livelli intollerabili. Il fenomeno del salafismo radicale - come ricorda l'esperto italiano Fabio Merone, residente a Tunisi - non è però solo una questione di sicurezza, ma per certi aspetti è anche sociale e politica.
Il fragile processo politico nelle fasi successive alla caduta del regime ha in parte indebolito le istituzioni dello stato, favorendo l'esplosione della contestazione sociale. Senza contare - scrive Merone in un articolo pubblicato dall'Ispi - che in un clima nuovo di libertà, dove chiunque poteva esprimersi liberamente, il processo di contestazione sociale e politica ha raggiunto un livello di tensione alto la cui espressione più acuta è stata la polarizzazione radicale della società, divisa in due campi contrapposti, islamista e anti-islamista.
Un'analisi fondata. A cui occorre aggiungere anche l'impatto di quanto sta avvenendo nella vicina Libia. La polveriera libica sta agendo come un detonatore nella regione, con il rischio che ripeta quanto la Siria ha fatto nel Golfo persico, estendendo così l'instabilità in altri Paesi. Forze di sicurezza tunisine impreparata ad affrontare una simile emergenza, frontiere porose, soprattutto nelle turbolente regioni meridionali, complicano il quadro.
La Tunisia è ancora un esperimento riuscito, un modello da seguire. Ma il sostegno della Comunità internazionale non appare più rinviabile .

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