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La solitudine dei banchieri centrali

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IL RUOLO DELLE AUTORITà MONETARIE

La solitudine dei banchieri centrali

No, quella della Bce non è una dittatura. Le dittature rinchiudono le persone nei campi di concentramento, le mandano al confino, le uccidono, le lanciano dagli aerei in volo. Le banche centrali, pur molto potenti, non fanno nulla di tutto questo. Al di là della scontata condanna, la protesta in fin dei conti persino allegra della manifestante di Femen che ha lanciato coriandoli sul presidente Mario Draghi al grido di «Porre fine alla dittatura della Bce» - non senza un riferimento al suo maschilismo: sulla maglietta la fanciulla aveva scritto “End the Ecb Dick-tatorship”, con un riferimento esplicito (dick), al pene e un inevitabile doppio senso - solleva però molte questioni serie sul ruolo delle autorità monetarie, che sarebbe sbagliato sottovalutare.

Il primo è raramente affrontato in Europa ma è di casa negli Stati Uniti: il ruolo delle banche centrali in una società democratica. La politica monetaria può essere potentissima, quando ci sono le condizioni giuste. Il suo compito, se l’inflazione aumenta troppo - un fenomeno che danneggia innanzitutto i lavoratori dipendenti - è di mandare l’economia in “recessione” (anche se non è necessario un segno meno davanti alla crescita del Pil) per raffreddarla. Né più, né meno. Un errore, un ritardo nell’intervenire - e la Bce potrebbe averne fatti - può significare condannare un’economia a un’inutile crisi.

Senza contare che i riferimenti immediati delle autorità monetarie sono soprattutto le banche e quindi il settore finanziario. Come ha sottolineato in un suo intervento su democrazie e politica monetaria l’ex vicepresidente della Federal Reserve Alan Blinder - non un esponente di Blockupy o di Femen - le banche centrali si trovano spesso nell’infelice situazione di dover regolamentare l’attività dei propri clienti. Con il rischio di creare conflitti tra i propri obiettivi.

I compiti della politica monetaria sono spesso affidati a tecnici o politici con una forte competenza tecnica che hanno un mandato molto lungo, in modo da renderli indipendenti dalle pressioni elettorali. A loro è affidato un potere enorme: si pensi ai danni compiuti dalla Sedlabanki islandese affidata a un ex premier che ha gestito la politica monetaria con criteri tutti elettorali: il paese è crollato in una crisi durissima che ha coinvolto anche diverse altre economie.

Per rendere compatibile le banche centrali con le democrazie, gli attuali sistemi politici impongono la trasparenza e l’accountability, l’obbligo di “dar conto” del proprio operato al Parlamento e al grande pubblico. Molte banche centrali hanno inoltre un obiettivo unico - in genere tenere l’inflazione al 2% - sulla quale il loro operato è valutato: la loro discrezionalità è limitata. Non è raro, però, vedere le autorità monetarie aggiungere compiti secondari al proprio operato: la crescita, l’andamento della valuta, la stabilità monetaria, gli incentivi ai governi e alle banche sono tutti effetti delle politiche monetarie che possono facilmente trasformarsi in obiettivi intermedi, mentre l’inflazione passa in secondo piano.

Il nodo più importante, però, non ricade nella diretta responsabilità delle banche centrali. È l’eclissi della politica. Uno dei problemi dell’attuale crisi è stata proprio la tentazione di affidare tutto o quasi tutto l’onere del risanamento delle economie alle banche centrali, che sono state sovraccaricate di compiti e obiettivi; ma se la politica monetaria può essere molto potente, può anche essere curiosamente debolissima.

In Eurolandia - dove nessuno ha saputo assumere un vero ruolo di leadership, né la Germania, né la Francia e tantomento l’Italia - l’assenza di una vera autorità centrale a cui fosse affidata la politica fiscale (in senso ampio) ha facilitato l’abdicazione della politica; e non sempre le autorità monetarie hanno accettato malvolentieri queste responsabilità e il potere che comportava. La Bce ha però spesso avvertito - soprattutto negli ultimi tempi - che, come necessario complemento delle sue politiche, occorrevano riforme strutturali e bilanci in ordine ma favorevoli alla crescita.

Non sempre i governi hanno saputo seguire questa strada, che richiede la capacità di guardare lontano e di agire in modo razionale (o almeno ragionevole). Molte energie sono state inoltre profuse per le riforme del mercato del lavoro, molto costose in termini sociali nell’immediato; questi interventi - come ha ricordato il Fondo monetario internazionale nel suo ultimo outlook - «non mostrano di avere effetti statisticamente rilevanti sulla produttività totale dei fattori, forse anche a causa della difficoltà di misurare il livello di flessibilità nei diversi paesi». Sono invece le riforme dei mercati dei prodotti ad avere effetti chiari, evidenti e notevoli nel settore dei servizi e della finanza mentre le politiche che puntano ad aumentare le competenze e a incentivare ricerca e sviluppo sono fondamentali nei settori dell’Itc e nel manifatturiero in generali. Gli interventi in infrastrutture, considerati spesso centrali dal mondo politico, hanno invece effetti in un orizzonte temporale decisamente più lungo.

Non si può neanche dimenticare che molti governi, non solo in Europa, hanno per molti anni cercato di risolvere problemi attraverso il debito, “rubando” risorse alle generazioni future e diventando spesso dipendenti dagli investitori stranieri. Sono problemi che non sanno risolvere, e per questo motivo si affidano alle banche centrali che sono così ritenute responsabili di una situazione economicamente e socialmente molto pesante, almeno in alcuni paesi. Il paragone - un’evidente iperbole - con la dittatura può trovare terreno fertile, anche se è e resta esagerato. I problemi di fondo, però sono molto seri, e non vanno risolti con i coriandoli, né con una sterile indignazione.

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