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Tasso sul Bund +1.300%, rimbalzano euro e petrolio, Borse…

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Tasso sul Bund +1.300%, rimbalzano euro e petrolio, Borse giù. Cosa si è rotto nell’ingranaggio dei mercati

Andamento titoli
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Il 17 aprile i tassi del Bund a 10 anni viaggiavano allo 0,049%. Questa mattina lo stesso titolo ha un rendimento dello 0,7 per cento. Fa già abbastanza effetto pur essendo nell’orbita di decimali. Fa certamente più effetto se si trasforma questa variazione in termini percentuali: +1.328%. In quattro settimane i tassi del Bund tedesco sono letteralmente volati. I fatti provano in modo eclatante che ha senz’altro visto giusto il gestore Bill Gross, quando il 21 aprile, twittava: «Il Bund è l'occasione di uno short (ribasso) che capita una sola volta nella vita».

Non c’è solo il Bund tedesco che ha fatto fuoco e fiamme nell’ultimo mese. A metà aprile il petrolio Brent quotava 57 dollari al barile. In poche sedute è balzato a 67 dollari, tornando a sfiorare il livello dei 70 dollari, segnando una progressione del 17 per cento.

Se osserviamo il mercato delle valute notiamo una dinamica simile sul cambio euro/dollaro. A metà aprile era a 1,05. Da allora è balzato fino a sfiorare 1,14 dollari segnando un picco di periodo dell’8,5 per cento.

E le Borse? Nell’ultimo mese il DAX 30 di Francoforte è passato da 12.374 punti (massimo di tutti i tempi) a 11.327 accusando un ribasso dell’8,5%, spettacolarmente speculare al rialzo dell’euro sul dollaro. Andamento simile per il FTSE MIB di Piazza Affari che, dopo aver superato i 24mila punti è tornato sotto i 23mila segnando un ribasso del 5 per cento.

Titoli di Stato, petrolio, borse e valute. Molto semplice dinanzi a questi numeri sostenere che siano correlati, come il perfetto marchingegno di un orologio a cucu. Non appena si muove un ingranaggio, a ruota si muovono anche gli altri.

Scolastico quello che sta accadendo oggi. Borse europee giù, euro in forte recupero sul dollaro, forti vendite sul Bund. E il petrolio? In rialzo del 2 per cento.

Più difficile è certamente capire se sia nato prima l’uovo o la gallina, ovvero se nell’ultimo periodo sia stata la discesa del Bund tedesco (dei prezzi ma non dei tassi che si muovono al rialzo in caso di vendite) ad innescare gli acquisti sull’euro, le vendite sul dollaro e gli acquisti sul petrolio quotato in dollari.

Oppure tutto è partito dal prezzo del petrolio? Anche questa è una ipotesi che potrebbe stare in piedi. Del resto il greggio nasconde dietro di sé un fortissimo potere, più potente persino delle manovre delle banche centrali: quello di influenzare direttamente e in modo piuttosto rapido il tasso di inflazione. Se mezzo mondo è in deflazione o in un regime di bassa inflazione, lo si deve anche alla spettacolare caduta del petrolio, che un anno fa viaggiava a 100 dollari, adesso è a 65 ma nei primi mesi dell’anno è arrivato fino a 40.

Le banche centrali orientano le politiche monetarie per controllare il tasso di inflazione e possono cercare di controllare l’andamento dell’inflazione provando a controllare il cambio, svalutandolo quando hanno bisogno di sostenere l’economia o rivalutandolo quando hanno paura di un eccessivo surriscaldamento dell’economia, e quindi dell’inflazione.

Per farlo le banche centrali possono manovrare i tassi di interesse e, solitamente, quando questi sono già stati portati allo stremo (cioè a 0) ricorrono per espandare ulteriormente l’economia e svalutare la propria moneta a manovre di quantitative easing, attraverso le quali immettono moneta acquistando titoli di Stato. È quello che ha fatto la Fed dal 2009 al 2014, ed è quello che ha iniziato da poco a fare la Bce (dal 9 marzo). Non è un caso che nel primo trimestre dell’anno il “Qe” della Bce (già incamerato nelle aspettative a gennaio) abbia prodotto effetti immediati: svalutazione dell’euro (scivolato fino a 1,04 dollari) e apprezzamento dei titoli di Stato dell’Eurozona e di Borse europee (che hanno beneficiato sia del cambio favorevole per maggiori esportazioni ma anche dell’alterata percezione del rischio derivante dai tassi a 0 sui titoli di Stato e dall’esigenza degli investitori di trovare altre asset class per alzare l’asticella dei rendimenti).

Non va dimenticato però che nel primo trimestre il prezzo del petrolio era molto basso (anche sotto i 50 dollari al barile). Così come non va dimenticato che l’inversione del trend che abbiamo visto a inizio anno scoccata nella terza settimana di aprile, quando cioè le Borse europee sono tornate a scendere, l’euro a salire e titoli di Stato dell’Eurozona a scendere (con tassi in rialzo), è coincisa con un forte balzo del prezzo del petrolio.

Resta difficile dire se sia nato prima l’uovo e la gallina, ma certo è che l’andamento del petrolio è senza dubbio in questo momento più che mai in grado di far muovere gli altri ingranaggi della finanza. Con la differenza che nella dinamica del prezzo possono pesare, molto di più che per gli altri ingranaggi decisioni geopolitiche, ovvero le intenzioni di controllare il prezzo su certi livelli da parte dei Paesi produttori.

«Che il petrolio sia un driver finanziario importantissimo lo si capisce anche dalla strategia della Federal Reserve di abbandonare la forward guidance, ovvero un indirizzo chiaro su cui orchestrare la politica monetaria - spiega Vincenzo Longo, strategist di Ig -. Di fronte all’imprevedibilità dell’andamento del prezzo del petrolio, e di conseguenza dell’impatto sull’inflazione, la Fed ha deciso che valuterà le scelte sui tassi di volta in volta, senza ancorare la decisione al raggiungimento di un determinato dato macroeconomico. Le altre banche centrali, compresa la Bce, hanno invece in questo momento una forward guidance, una linea di indirizzo in base alla quale la politica monetaria è ancorata al tasso di inflazione, ma rischiano di risultare spiazzate dagli effetti che gli sbalzi del petrolio potrebbero avere sull’inflazione. La Fed lo ha capito prima e si è sganciata da questa dinamica dimostrando ancora una volta di essere pioniera in politica monetaria».

Il recente balzo del petrolio ha spinto molti gestori a vendere titoli di Stato dell’Eurozona, compresi i Bund tedeschi, acquistati con rendimenti ai minimi storici, sulla base di aspettative di inflazione molto basse, se non deflattive, che un rialzo del prezzo del petrolio rischia di compromettere. A quel punto i rendimenti reali di questi bond diventerebbero carta straccia e questo ha innescato le violenti vendite delle ultime settimane in particolare sui titoli sicuri.

«Nel brevissimo termine i tassi del Bund a 10 anni potrebbero anche tornare all’1%, così come il petrolio ripuntare a 70-75 dollari - continua Longo -. Ma il trend di fondo non cambia, il petrolio dovrebbero restare basso e scendere dai livelli attuali, così come il tasso dei Bund potrebbe tornare a scendere, anche se difficilmente ai livelli azzerati di un mese fa».

E poi c’è la Grecia. Una lettura più in profondità dei mercati ci dice che le turbolenze del petrolio possono avere un effetto farfalla molto più potente di un nuovo (sarebbe il terzo il cinque anni) fallimento della Grecia.

Lo confermano le recenti vendite sul Bund che ci indicano ancora una volta che le turbolenze sulla gestione della crisi di Atene non hanno reale rilevanza, non fanno cioè parte dell’ingranaggio, ma vengono utilizzate semplicemente di volta in volta dagli investitori come capro espiatorio per attuare degli storni. Del resto, se la Grecia preoccupasse davvero gli investitori come mai questi stanno vendendo il titolo più sicuro dell’Eurozona, cioè il Bund?

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