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Le opere degli shah

Picasso, Warhol e Bacon negli scantinati di Teheran: la collezione di Farah Diba vale 5 miliardi di dollari

Delle immmense ricchezze dello Shah di Persia e Re dei re, Mohammad Reza Pahlavi, si è favoleggiato a lungo prima e dopo la caduta della monarchia nel 1979 sotto i colpi della rivoluzione Khomeinista che portò alla Repubblica Islamica. Sfarzi persiani, che da Re Dario in poi, incantarono Alessandro il Grande e perdurarono nei secoli fino alla Repubblica odierna. Era dunque “normale” che interi aerei arrivassero da Parigi carichi di rose per le nozze Reali, come era “normale” che il Trono del Pavone sotto il peso dell’oro zecchino brillasse di pietre preziose più di ogni altro. Quel che invece è rimasto nell’ombra, nel segno di un mito che risorge come la fenice, furono le grandi collezioni d’arte occidentale di un Iran che il Re dei Re e la sua terza moglie, l’imperatrice, la Shahbanou, Farah Diba avevano accumulato in una Therean che volevano come la più occidentale fra le capitali d’Oriente. Andy Warhol, Pablo Picasso, Roy Lichtenstain, ma anche Francis Bacon, Jackson Pollock, Edgar Degas, Mary Cassatt e tanti, tanti altri entrati a far parte delle collezioni dell’ex studentessa di architettua a Parigi che il destino volle imperatrice dopo che lo Shah aveva ripudiato al principessa Soraya Esfandiary Bakhtiari . E quando si tratta di sovrani di Persia non c’è da stupirsi che si parli della collezione forse più ricca al mondo di arte moderna e contemporanea.

Una collezione lontana da occhi indiscreti (come spiega l’agenzia AdnKronos/Aki) custodita in uno scantinato fortino della capitale iraniana , nei depositi del Museo di Arte contemporanea. I pannelli disposti a libro lungo le pareti ricordano quelli per la vendita dei poster nei bookshop. Ma le opere che contengono sono tutte originali. Fai scorrere un pannello e appare “Il pittore e la modella”, dipinto da Picasso nel 1927. Ne tiri fuori un altro e trovi l'esplosione di rosso, giallo e nero di “Mural on Indian red ground”, del 1950, dipinto che segnò un'evoluzione fondamentale nell'arte di Pollock. Il suo valore stimato si aggira intorno ai 250 milioni di dollari. «Non credo che in Europa esista un museo di arte contemporanea con una collezione ricca come questa», affermano fonti diplomatiche che di recente hanno avuto l'opportunità di visitare i sotterranei del museo di Teheran. «E' una collezione straordinaria, che fa invidia alla Tate Modern di Londra o alle gallerie più importanti di New York - sostengono le fonti - Senza dubbio è la più grande collezione di arte occidentale fuori dall'Occidente».

Le centinaia di opere d'arte sono state collezionate negli anni Sessanta e Settanta. Erano gli anni in cui la Persia voleva esibire il suo spirito liberale e la sua apertura alle ultime tendenze artistiche occidentali. In quegli anni, Andy Warhol in persona si trasferì per un periodo a Teheran, facendone una scena artistica molto glamour. L'inventore della pop-art dipinse anche un ritratto di Farah Diba. Tra il 1977 e il 1979 la ricchissima collezione della moglie dello shah fu esposta al museo di Teheran, disegnato dall'archistar Kamran Diba, cugino di Farah Diba. Ma poi, nel 1979, arrivò la Rivoluzione Islamica dell'Imam Khomeini, che cancellò la monarchia e tutti i suoi simboli. Lo Shah e la sua famiglia abbandonarono l'Iran, lasciandosi alle spalle la straordinaria collezione. Una collezione “eretica” per la nuova classe politica islamica, un simbolo di una monarchia asservita politicamente e culturalmente all'Occidente, che aveva sperperato le ricchezze del paese per circondarsi di lusso. Bisognava quindi disfarsene. La dottrina sciita dell'Islam, al contrario di quella sunnita, è tollerante nei confronti della rappresentazione figurativa dell'essere umano, quindi lo sciita Khomeini e i suoi seguaci non ritennero necessario distruggere le opere. Solo il ritratto di Farah Diba eseguito da Andy Warhol fu distrutto durante la rivoluzione. Un nudo di Willem De Kooning fu venduto dalle autorità post-rivoluzionarie. Tutto il resto fu messo sotto chiave e la situazione non è cambiata, dopo 35 anni. Nel giardino del museo fanno ancora mostra di sé alcune sculture, come una “Sfera” di Arnaldo Pomodoro da poco restaurata in Italia. Ma le tele dei depositi solo occasionalmente e per brevi periodi sono esposte nel museo e raramente singole opere vengono prestate a musei all'estero. Lo “scandaloso” trittico di Francis Bacon “Two figures lying on a bed with attendants” è andato alla Tate Gallery nel 2003. Un Picasso, un de Kooning e un Max Ernst alle Scuderie del Quirinale di Roma, per una mostra sulla Metafisica nel 2004. Nel 2000, sotto la presidenza del riformatore Mohammad Khatami, non fece troppo scalpore l'esposizione al primo piano del museo dei quattro Mick Jagger di Andy Warhol. E nel 2005 l'allora direttore del museo, A.R. Sami Azar, riuscì ad esporre per alcune settimane ben 188 opere. Ma si era già passati agli anni oscuri del conservatore Mahmoud Ahmedinejad, appena insediatosi. E forse fu proprio quella mostra a costare il posto a Sami Azar. Tutti sono consapevoli, in Iran, del valore della collezione, che comprende un inestimabile “Brattata” di Roy Lichtenstein e una statua in bronzo di René Magritte, versione tridimensionale del famosissimo quadro metafisico “The Therapist”. Il personale del museo custodisce gelosamente il tesoro dei sotterranei, il cui valore stimato supera i cinque miliardi di dollari.

Teheran siede letteralmente su una miniera d'oro, visionabile solo eccezionalmente da pochi ospiti eccellenti. Ma per qualcuno è arrivata l'ora di aprire la cassaforte. Il momento è senza dubbio il migliore, dal 1979 a oggi. Da un lato l'economia nazionale è allo stremo, fiaccata da anni di sanzioni internazionali. Dall'altro, sotto la guida del moderato Hassan Rohani, l'Iran sta dimostrando importanti aperture verso l'Occidente. Mettere a frutto il patrimonio custodito nei sotterranei del museo sarebbe quindi utile e non più così in contrasto con le politiche del governo. «Si sta cominciando a ragionare su cosa si può fare di questo patrimonio . Una delle ipotesi che si prendono in considerazione è quella dei prestiti per le esposizioni all'estero». Un'ipotesi che fa gola a molte gallerie europee, tra le quali anche importanti musei romani, ma che per il momento resta solo una vaga speranza. «Non c'è ancora un progetto - chiariscono le fonti - Si sta ragionando, ma siamo ancora in alto mare». E chissà se alla fine Picasso e Warhol non riescano ad avere la meglio sugli eredi di Khomeini.

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