Vladimir Vladimirovich Kara-Murza jr, per così dire, è figlio d'arte. Anche il padre Vladimir era un dissidente, che rischiò di essere espulso dall'Università di Mosca per aver sfregiato delle immagini di Brezhnev. Suo figlio, ricoverato da martedì sera in rianimazione a Mosca per una insufficienza renale dalle origini poco chiare, rischia molto di più. È tra la vita e la morte, dice il padre: «La situazione è più seria di quanto pensassimo», ammette mentre la moglie di Vladimir, Evghenija, parla di «sintomi da avvelenamento» e insiste per trasferire il marito in Europa o in Israele: «In Russia è in pericolo». Anche i colleghi del 34enne Kara-Murza, instancabile attivista dell'opposizione, non esitano a pronunciare la parola “veleno”, su cui il padre invece resta prudente. Vuole vedere prima il figlio guarire: «Poi penseremo alle cause», dice.
Storico, politico, giornalista, Vladimir Kara-Murza è coordinatore di Open Russia, il “movimento sociale” fondato da Mikhail Khodorkovskij dal suo esilio in Svizzera, ed è uno dei dirigenti di RPR Parnas, il partito di Boris Nemtsov. Se i medici del 1° Ospedale Pirogov di Mosca ora parlano di intossicazione, alludono forse a una dose eccessiva degli antidepressivi che Kara-Murza avrebbe iniziato a prendere dopo la morte dell'uomo che aveva sempre al suo fianco. Nemtsov è stato ucciso il 27 febbraio scorso davanti al Cremlino.
E nel mistero che circonderà le ragioni della malattia di Kara-Murza, finché non saranno chiarite, gli attivisti dell'opposizione russa ricordano che Volodia si è sentito male il giorno successivo alla presentazione di un film-documentario, “La Famiglia”, prodotto da Open Russia: un atto di accusa nei confronti di Ramzan Kadyrov, signore della Cecenia. In una spettrale luce sanguigna, il film inizia mostrando Kadyrov mentre parla ai suoi 80mila combattenti, nello stadio di Grozny: «Noi siamo l'armata di Vladimir Putin – scandisce il presidente ceceno -. Se arriverà l'ordine, lo proveremo con i fatti». Il documentario racconta poi le testimonianze agghiaccianti delle torture e gli abusi subìti nel regime di Kadyrov, la corruzione e i furti dal budget federale.
Vladimir Kara-Murza è però anche tra i coraggiosi che, dopo la morte di Nemtsov, hanno concluso il suo ultimo lavoro: un rapporto sulla presenza di soldati russi in Ucraina. L'unico modo, sosteneva Nemtsov, per mettere fine alla propaganda ma soprattutto «a questa guerra tra i nostri due popoli, mostrando come Putin l'ha iniziata: questo è il vero patriottismo». Il rapporto, presentato il 12 maggio scorso a Mosca, sulla base delle testimonianze raccolte calcola che in questi mesi i soldati russi rimasti uccisi in Ucraina sono almeno 220. Diecimila, quelli che si suppone siano presenti nel Donbass, inviati a combattere senza ordini ufficiali o dopo essere costretti a dare le dimissioni, dal momento che Mosca nega la propria presenza militare laggiù. Uomini senza mostrine e armamenti senza insegne, come quelli che l'agenzia Reuters scrive di aver visto ammassare in questi giorni ai confini tra Russia e Ucraina.
Le indagini sull'assassinio di Nemtsov si trascinano senza che qualcuno speri possano davvero arrivare a scoprire il mandante dell'omicidio. Nel frattempo, il Cremlino ha trovato un altro sistema per tappare la bocca a chi volesse parlare delle morti in Ucraina. Con una serie di emendamenti alla legge sui segreti di Stato, un decreto del presidente ha inserito tra questi le morti di soldati russi avvenute in tempo di pace, non solo in guerra. Un avvertimento agli attivisti, ai politici e ai giornalisti, come alle famiglie costrette a seppellire i caduti in segreto, in tombe senza nome.
Ma per essere dimenticati, non c'è bisogno di morire. Come sanno Aleksandr Aleksandrov e Evghenij Erofeev, catturati dalle forze ucraine presso Luhansk il 16 maggio scorso. «Sono un sergente dell'esercito russo», ammette Aleksandrov in una registrazione spiegando di non aver mai lasciato le forze armate russe. Al contrario della posizione ufficiale russa, dice il suo avvocato Konstantin Kravchuk, secondo la quale i due militari sono mercenari e «con l'esercito russo non hanno più niente a che fare, dal momento che il loro contratto sarebbe scaduto in dicembre». E ora, raccontano i due soldati, alle loro telefonate da casa nessuno risponde più.
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