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Se non basta la supplenza della Bce

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la sfida dell’europa

Se non basta la supplenza della Bce

Tra integrazione barcollante ed egoismi crescenti, l’Europa da troppo tempo vive una fase di disorientamento profondo nella quale rischia di perdersi. Riuscendo ormai a disorientare perfino i suoi sostenitori più convinti. «L’Europa non ha alternative ma ha bisogno di un colpo d’ala, la politica deve ritrovare il ruolo» ha avvertito ieri Giorgio Squinzi, europeista noto e incrollabile.

Da fattore esogeno della politica nazionale, l’Europa da anni è diventata una variabile endogena sempre più intrusiva e determinante nella vita democratica, politica, socio-economica, industrial- finanziaria e culturale dei suoi Paesi membri, in breve del loro modello di società e di sviluppo.

Per questo, all’assemblea annuale di Confindustria, il suo presidente non avrebbe potuto trascurarne peso e importanza cruciale anche nella ripresa dell’Italia. Che ha imboccato, è vero, la via delle riforme e del risanamento dei conti pubblici ma ha ancora molto da fare per modernizzarsi davvero, recuperare competitività e crescita duratura mettendosi al passo con i maggiori concorrenti globali, non solo europei.

Oggi però l’Unione appare più un freno che un propellente, una realtà inquisitiva e anche punitiva più che davvero propositiva per i suoi cittadini e le sue imprese. E Squinzi non risparmia le critiche. «La sola istituzione che agisce davvero per l’integrità e il rilancio dell’economia è la Bce di Mario Draghi. Ma è superfluo precisare che la Bce non può sostituirsi all’Unione degli Stati». Se vuole ritrovare appeal e un futuro certo, l’Ue non può vivere di «simboli freddi e burocratici alimentando solo derive populiste».

Che poi ovviamente le remano contro, come i nazionalismi dilaganti e le spinte centrifughe che la scuotono da Nord a Sud.

Per sconfiggere tendenze alla lunga suicide, l’Europa deve «ritrovare un progetto politico e una visione comune»: solo così potrà tornare ad essere «un interprete autorevole sulla scena geopolitica mondiale e rispondere ai bisogni complessi di cittadini e imprese».

Invece, denuncia il presidente di Confindustria, anche se abbiamo il mercato più grande del mondo, siamo diventati il continente della crescita bassa dimenticando i valori reali su cui costruire il futuro e competere in un’economia sempre più globalizzata. «Ci siamo aggrappati con scarsa lungimiranza a un rigorismo eccessivo. Il negoziato con la Grecia è diventato il paradigma dei nostri limiti. E solo ora si comincia a capire che la sfida è un'altra: è tutta politica e civile».

La dottrina europea di Squinzi auspica un ritorno ai Padri Fondatori: a quei principi dell’unità nella diversità, dell’unione che fa la forza, della solidarietà che crea coesione e non divisioni, sotto l’ombrello di una ritrovata fiducia reciproca. Tutti concetti e valori triturati dal settennato nero delle crisi multiple europee, gestite in stato di perenne confusione mentale oltre che di interessi nazionali regolarmente in contesa.

È ora di invertire la rotta, di carburare la ripresa economica con il rilancio della politica europea. E l’Italia, sottolinea il nostro, ha le carte in regola per fare la sua parte. L’accordo proprio ieri a Bruxelles sul piano Juncker, che sarà operativo da settembre con investimenti per 315 miliardi in tre anni, rappresenta un concreto segnale positivo.

Ma ci vorrà ben altro per riportare sulla retta strada integrativa il mastodonte europeo. C’è l’equazione greca da risolvere evitando un default che nuocerebbe all’eurozona e al risveglio della crescita. C’è la questione britannica da superare insieme all’antica tentazione inglese di destrutturare l’Europa. Che invece medita di riaggregarsi intorno al nucleo duro dell’eurozona, sempre ammesso che le idee franco-tedesche riescano a fare proseliti e che qualche gioco non sfugga di mano.

Un’ Europa forte e condivisa resta lo spartiacque tra rilancio e declino collettivo. L’industria l’ha capito da tempo. La politica arranca ancora, disordinatamente.