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Il dramma dei migranti nel Sudest asiatico

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MIGLIAIA ALLA DERIVA NELL’OCEANO INDIANO

Il dramma dei migranti nel Sudest asiatico

Reuters
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Fuggono da povertà e discriminazione: decine di migliaia di persone ogni anno scappano da villaggi del Bangladesh e del Myanmar in cerca di un futuro che non sia già segnato. Per molti le speranze terminano in fondo all’Oceano indiano. Per moltissimi nei campi di schiavitù tra Malesia e Thailandia, dopo essere stati venduti e comprati in un mercato di esseri umani che coinvolge funzionari pubblici e militari.

Secondo i dati forniti dall’Arakan project, un’associazione non governativa che monitora il fenomeno, in 68mila hanno sostenuto questo calvario nell’ultimo anno. Altre stime dicono 25mila da gennaio. Una tragedia. E un test sulla capacità di risposta ai problemi comuni dei dieci Paesi Asean e sulla loro credibilità agli occhi della comunità internazionale, anche degli affari: Indonesia, Thailandia, Malesia, Myanmar, Filippine, Singapore, Brunei, Vietnam, Cambogia e Laos sono tutti impegnati in un processo d’integrazione che entro la fine dell’anno farà un altro passo verso la creazione di una comunità economica (Aec) nella quale possano muoversi più liberamente investimenti, beni e in qualche misura il lavoro.

Tra gli ambiziosi obiettivi dell’Aec, 625 milioni di abitanti e 2.400 miliardi di Pil, c’è anche un mini Schengen riservato ai lavoratori qualificati. Il paradosso - fa notare Wayne Arnold, opinionista del magazine finanziario Barron’s - è che mentre questi ultimi tendono a migrare in Paesi sviluppati fuori dall’Asean, i flussi intra-regionali più consistenti riguardano persone poco o per nulla qualificate, che sono già fondamentali per le economie più ricche dell’area, come la Malesia, dove vanno a coprire impieghi manuali e a bassa remunerazione che i locali non vogliono più.

Qui come altrove (il parallelo con il dramma del Mediterraneo è inevitabile), le porte chiuse e la rinuncia a gestire questa migrazione, ritratta perlopiù come minaccia attraverso le lenti del populismo, finisce per alimentare un circuito di clandestinità e illegalità che sconfina nello sfruttamento se non nella pura e semplice schiavitù. La sorte peggiore tocca come sempre ai più deboli, che in questa parte del mondo si chiamano rohingya, la minoranza musulmana e negletta del Myanmar, oltre un milione di persone concentrate nello stato del Rakhine. La maggioranza buddista e le istituzioni birmane rifiutano perfino di chiamarli con il loro nome e li considera immigrati indesiderati dal vicino Bangladesh, dove ce ne sono altri 200mila in campi profughi. Nemmeno il Nobel della pace Aung San Suu Kyi ha mai preso apertamente le loro difese.

Solo nelle ultime settimane, almeno quattromila persone sono state tratte in salvo sulle coste di Thailandia, Indonesia e Malesia. Mercoledì, il Myanmar ha finalmente tratto in salvo oltre 700 persone, dopo averle lasciate alla deriva per giorni. Senza fornire numeri precisi, le autorità locali hanno ammesso di aver scoperto dozzine di campi di prigionia al confine tra Thailandia e Malesia, con gabbie e centinaia di cadaveri sepolti nella giungla in quelle che somigliano a fosse comuni. Chi sopravvive a questi lager, nel migliore dei casi viene restituito alle famiglie dietro riscatto. Altrimenti finisce a lavorare in condizioni di schiavitù, arricchendo chi tira le fila della tratta e chi chiude gli occhi anziché fermarla: le indagini in Thailandia hanno portato a decine di arresti, compreso un generale a tre stelle. L’Onu stima che almeno 2mila persone siano ancora alla deriva: con i riflettori puntati addosso e il giro di vite finalmente avviato da Bangkok, i trafficanti li hanno abbandonati in mare.

«Finché questo fenomeno persiste - commenta Arnold - è un mistero come l’Asean possa sperate di tutelare tutti gli altri migranti, qualificati o meno, dal subire abusi in Paesi dove hanno poca o nessuna tutela». La tragedia porta al pettine il più controverso nodo di un’associazione che tiene insieme democrazie in fieri, regimi autoritari e giunte militari, sulla base del postulato della non ingerenza. Così, dopo essersi guardati per decenni dal criticare apertamente il regime del Myanmar (ma pochi nel gruppo avrebbero avuto le carte in regola), i partner Asean ora assistono silenti alla repressione dei rohingya, privati dei diritti di cittadinanza e ridotti in condizioni di apartheid. Si stima che oltre la metà delle decine di migliaia di disperati che ogni anno tentano l’esodo nella regione appartenga a questa etnia.

Per anni indifferenti al problemi, Indonesia e Malesia hanno ora concesso timide aperture sul fronte dell’accoglienza, ma il summit d’emergenza, convocato a Bangkok il 29 maggio per coordinare una risposta comune, si è chiuso senza nemmeno contemplare la parola rohingya nelle dichiarazioni finali.

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