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I calcoli sbagliati di Erdogan

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I calcoli sbagliati di Erdogan

Il presidente turco Tayyip Erdogan è anche lui una vittima delle primavere mediorientali, di cui voleva diventare il leader di riferimento nel 2011. La sua era già arrivata, con due anni di ritardo, nel 2013, durante la rivolta di Gezi Park.

Lui, che aveva proiettato il Paese nel boom economico, liberando le risorse politiche e sociali della parte più conservatrice e tradizionale della Turchia, non aveva capito che il Paese stava cambiando. E che stava cambiando anche il Medio Oriente ma non nella direzione in cui sperava per estendere l’influenza di una Turchia dalle aspirazioni neo-ottomane. Ha fatto dei calcoli sbagliati, in politica interna ed estera: aiutando i jihadisti ha sperato di abbattere il regime di Bashar Assad e ora confina per 400 chilometri con il Califfato, i Fratelli Musulmani di Mohammed Morsi sono stati detronizzati in Egitto e i salafiti libici di Tripoli, altri alleati di Ankara, sono in grave difficoltà. La filiera islamica si è rivelata un fallimento e i quasi due milioni di profughi siriani in Turchia stanno diventando un problema per un Paese baluardo della Nato e strategico per il passaggio delle pipeline da Russia, Caucaso, Iran e Iraq.

I giovani turchi under 30, che sono milioni, e che Erdogan a Gezi Park aveva bollato come «vandali», hanno votato per il partito curdo di Selahattin Demirtas il quale, distaccandosi dalla retorica guerrigliera del Pkk, ha saputo allargare sapientemente la base del suo elettorato facendo entrare nelle liste la Turchia delle donne, delle minoranze sociali, religiose ed etniche. I curdi sono per la prima volta rappresentati da un partito: evento storico perché sono il 20% della popolazione su 77 milioni e per oltre 30 anni nell’Anatolia orientale si è combattuta una guerra con 40mila morti. Ma Erdogan non ha compreso neppure l’ascesa dei curdi, anzi durante l’assedio di Kobane ha bastonato i volontari che andavano a battersi contro l’Isis. Ha mancato di sensibilità politica, proprio lui che aveva dato il via ai negoziati di pace con la guerriglia curda.

La netta vittoria alle presidenziali e quella precedente alle amministrative nel 2014 non l’hanno aiutato a percepire che con il suo stile autocratico stava oltrepassando la linea rossa: oggi il Paese è spaccato, il suo partito l’Akp, dopo 13 anni di predominio ininterrotto, non ha i voti per formare un governo monocolore ma anche l’opposizione del Chp, il partito repubblicano, non è in grado di dare un esecutivo al Paese perché non è immaginabile che i nazionalisti dell’Mhp e l’Hdp filocurdo di Demirtas, il vero vincitore delle urne, possano stare insieme nello stesso esecutivo. Ma neppure i nazionalisti dell’Mhp, che pure hanno colto un successo significativo, possono andare al governo con l’Akp: uno scenario possibile è che i deputati nazionalisti abbandonino l’aula se si dovesse far passare ai voti un governo di minoranza.

Tayyp Erdogan è a un bivio: deve decidere se inaugurare un’epoca di caos e instabilità oppure partecipare alla normalizzazione della politica turca lasciando che siano i leader e i deputati usciti dalle urne a decidere chi formerà il prossimo governo.

La responsabilità della sconfitta dell’Akp è soprattutto sua. Erdogan ha fatto quello che non poteva fare da presidente, sia pure eletto con il 52% dei voti: scendere in campagna elettorale a favore del suo partito, arringando la folla nei comizi e sventolando il Corano, un gesto che nessuno aveva mai osato compiere nella repubblica fondata da Ataturk. Ha vìolato la legge perché ha manovrato la giustizia, corrotto i giudici, incarcerato i giornalisti e condizionato un Parlamento costituito in gran parte da uomini fedeli ai suoi ordini. In questa nuova assemblea, con l’opposizione più forte e un partito curdo con 80 seggi, non potrà più fare votare le leggi che vuole e controllare docili commissioni parlamentari. Dalle urne esce colpito e affondato non solo il suo progetto di repubblica presidenziale ma anche il tentativo di monopolizzare il potere amministrativo e burocratico, insieme ai gangli dello Stato.

Di questa instabilità, che fa retrocedere la Turchia a scenari da anni 90, i mercati hanno percepito subito tutta la gravità. Anche se la Turchia rimane un Paese solido nei fondamentali, il tasso di crescita non è più quello di un tempo e le riforme si sono arenate. Il presidente resta popolare nella solida base di un partito largamente radicato nel Paese ma rischia di rimanere un leader dimezzato: l’ironia della sorte è che l’uomo che voleva decidere tutto da solo ora non ha più in mano il suo destino ma sarà costretto a condividere potere e responsabilità. È la democrazia, bellezza, e quella turca avanza, sia pure a passi di tartaruga, come titolava ieri Hurriyet.