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Perché il «doping della moneta» ha funzionato più in Usa e…

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politiche monetarie a confronto

Perché il «doping della moneta» ha funzionato più in Usa e Giappone che in Europa

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Dal 2009 le principali banche centrali del pianeta hanno stampato oltre 10mila miliardi di dollari nel tentativo di rilanciare le rispettive aree economiche svalutando le rispettive valute. Si chiama tecnicamente quantitative easing, allentamento monetario attraverso l’intervento diretto della banca centrale sul mercato secondario acquistando titoli di Stato e titoli privati.

Le prime a muoversi sono state gli Stati Uniti e la Gran Bretagna nel 2009 e nel 2010. È poi arrivata la Bank of Japan (2012) e tre anni dopo la Bce (2015). Chi ha iniziato per primo si appresta adesso a invertire la politica monetaria, cioè a rialzare lentamente il costo del denaro per rinormalizzare l’economia dopo l’ondata di liquidità immessa. Il Giappone vede vicino lo storico obiettivo dell’inflazione al 2% mentre l’Eurozona (che ha iniziato per ultima questa ondata di svalutazioni competitive) è ancora molto lontana (0,3% il costo del denaro a maggio dopo i primi mesi dell’anno in deflazione).

C’è però da dire una cosa. Non è detto che stampare moneta, dopare un po’ l’economia con nuova liquidità, funzioni allo stesso modo. Ci sono posti, dove per motivi anche geopolitici il «Qe» funziona meglio e altri, come ad esempio l’Eurozona, in cui gli intoppi potenziali sono maggiori.

Il Qe della BoJ sta funzionando benissimo in un mercato finanziario relativamente chiuso, avendo ad oggetto attività finanziarie marginalmente presenti nei portafogli globali, in un contesto di liquidità molto elevata ed in assenza di fattori esterni di disturbo. Il risultato? Razionale: titoli di Stato e mercato azionario al rialzo e Yen molto debole. Negli Stati Uniti i tre Qe della Fed hanno avuto successo con l'unica nota stonata della discesa dei titoli di Stato (i quali però nei tre casi erano sempre saliti in anticipo rispetto alle mosse della Fed e sono comunque complessivamente saliti nell'arco temporale delle 3 manovre) - spiega Alessandro Picchioni, responsabile investimenti di WoodPecker Capital -. La delicatezza della manovra attuale della Bce è data dal fatto che, al contrario degli Usa che rappresentano la variabile “indipendente” dei mercati finanziari globali (determinano in larga parte i movimenti) e a differenza del Giappone che pesa marginalmente nei portafogli internazionali, i mercati europei rappresentano una variabile “dipendente” (sono molto influenzabili dall'esterno) e sono ben presenti nei portafogli globali».

«L'area euro - prosegue Picchioni - ha un mercato obbligazionario enorme e aperto ai flussi di denaro internazionali ed un mercato azionario aperto e molto dipendente dai movimenti di Wall Street, per questi motivi possiamo affermare che il Qe sia molto più disturbabile degli altri. Un qualsiasi evento, in grado di generare un movimento risk-off con relativa liquidazione delle posizioni principali condivise dagli “asset manager” a livello globale, potrebbe controbilanciare almeno nel breve termine l'azione della Bce. Un esempio? Perché l'euro tende recentemente a salire tutte le volte che si acuisce lo scontro sul fronte greco? In fin dei conti l'aggravarsi di questo rischio, con una potenziale “Grexit”, dovrebbe determinare un nuovo indebolimento del cambio e non una sua risalita. Ma in questo momento la maggior parte degli asset manager ha posizioni rialziste sul dollaro Usa, per cui una loro riduzione finisce per andare contro l'onda principale ed il lavoro di Draghi. Insomma, il Qe in “salsa” europea ha la caratteristica strutturale di essere più vulnerabile a breve termine con risultati più volatili rispetto a quello americano, giapponese o anche inglese».

Alla fine la manovra di Draghi riuscirà a produrre gli effetti desiderati?

«A nostro giudizio la risposta è positiva, a patto che la Bce mantenga sempre elevato il proprio impegno, rassicurando costantemente il mercato sulla determinazione al raggiungimento degli obiettivi finali. Un evento poi, che potrebbe fungere da ulteriore fattore di disturbo, saranno le elezioni presidenziali Usa del 2016 ed il relativo atteggiamento della Fed, per cui in sede di commento finale preferiamo valutare gli effetti del Qe della Bce in due orizzonti temporali - conclude Picchioni -. Per fine 2015 il Qe dovrebbe aver funzionato causando rialzi importanti dei mercati azionari europei, facendo registrare tassi di interesse a lungo termine forse un po' più alti rispetto al livello di fine 2014 ma comunque bassi rispetto al recente passato ed infine mantenendo tendenzialmente debole l'euro. Per il 2016, a patto che la Grecia non costituisca una problema in termini di uscita dall'area euro (evento che riteniamo molto improbabile), servirà una ulteriore accelerazione del Qe, e forse una sua estensione temporale, per mantenere gli effetti desiderati in linea con l'onda principale».

Secondo Stefano Sardelli, direttore generale di Invest Banca i «i cosiddetti “Qe trade” non sono una novità, basta sovrapporre i grafici del mercato azionario americano dal minimo del 2009 e l'ampliamento del bilancio della Fed (che esprime i titoli da essa acquistati con i vari QE messi in atto in questo periodo) per capire come ci sia una correlazione diretta tra i due eventi. Un'altra prova è costituita dal mercato azionario giapponese, legato alla svalutazione dello yen indotta dal Qe della banca centrale nipponica. Terza e ultima evidenza è rappresentata dall'effetto della discesa del cambio euro/dollaro sul mercato azionario europeo che ha sovraperformato quello Usa. Il comportamento del mercato è quindi in questi casi coerente con le attese (più massa monetaria equivale a più svalutazione del cambio che equivale ancora alla possibilità per investitori esteri di prendere a prestito una divisa in fase di svalutazione per acquistare azioni di quell'area credendo nella crescita delle quotazioni e nel rimborso della divisa ad un valore più basso di quello iniziale) ma è anche giusto dire che il gioco è ormai dichiarato e quando un comportamento diventa troppo diffuso assume i contorni della speculazione rischiosa: è sempre più rischioso percorrere questo “facile” trade. Occorre prestare molta attenzione a lasciarsi andare senza freni perché potrebbe essere poco il margine di ulteriore guadagno rimasto ed, al contrario, molto elevato il possibile downside. I margini di miglioramento delle valutazioni delle azioni europee in base ad un incremento degli utili esistono ma ad oggi il mercato ha già dato un'ampia apertura di fiducia per dei risultati, in termini di margini e di utili, che dovranno crescere in modo molto forte nei prossimi trimestri. La fase di stallo dell'azionario europeo negli ultimi due mesi esprime questo scenario: si è molto ridotto il supporto della chiusura del differenziale dei fondamentali e dello sconto delle valutazioni rispetto alle azioni Usa ma resta intatto il fattore Qe trade che, come abbiamo visto, è del tutto assimilabile ad una variabile di sentiment che, se non suffragata da un miglioramento dei fondamentali, può sfociare facilmente in compiacenza ed eccesso di valutazione».

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