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Perché non è un caso l’attacco a un anno dalla nascita del…

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le responsabilità dell’occidente

Perché non è un caso l’attacco a un anno dalla nascita del Califfato

Il 29 giugno 2014, dopo la conquista di Mosul, l'Isis proclamava il Califfato guidato da Abu Bakr al Baghdadi. Un anno dopo il Califfato, nonostante qualche sconfitta, ha tenuto le posizioni in Siria, è avanzato in Iraq, mettendo le mani su Ramadi, e ha esteso la sua influenza nel mondo arabo-musulmano. È difficile dire se ci possa essere un piano o un coordinamento dietro i quattro attentati contemporanei in Francia, Tunisia, Kuwait e Somalia nel venerdì di Ramadan - anzi si potrebbe escludere - ma l'anniversario della nascita del Califfato è più di una coincidenza: da Oriente a Occidente, dal Maghreb al Mashreq, dalla penisola arabica all'Afghanistan, jihadisti di varie provenienze hanno espresso fedeltà al califfo Baghdadi o si sono ispirati alle gesta dell'Isis.

Che fare? Il primo punto è prendere atto di una realtà geopolitica: dalla Siria all'Iraq, dallo Yemen alla Libia, interi stati sono crollati o si stano disgregando. Questo processo assolutamente fuori controllo provoca vuoti di potere enormi. La piccola Tunisia ha visto affluire sul suo territorio oltre un milione di libici, le frontiere sono state infiltrate dai jihadisti e le forze di sicurezza non sono in grado di controllare l'intero Paese.

La Tunisia è un bersaglio privilegiato: dei Paesi usciti dalle cosiddette primavere arabe è stato l'unico a imboccare decisamente la via democratica con una nuova costituzione e un governo di unità nazionale che rappresentano delle solide barriere all'estremismo. E' quasi certo che ancora una volta i tunisini scenderanno in piazza per difendere le loro conquiste dall'attacco di una minoranza radicale.

Ma l'Europa deve intervenire e far seguire alle parole, già spese in abbondanza dopo l'attentato al Museo del Bardo, i fatti: la Tunisia è un nostro vicino di casa in difficolta e deve essere aiutato, sia dal punto di vista economico che della sicurezza. Così come devono essere sostenuti i curdi in lotta contro il Califfato. Inutile lamentarsi che i raid della coalizione internazionale non sono sufficienti. La comandante curda Nasrin Abdalla ieri in visita a Roma ci ha spiegato perché: i jihadisti usano i civili come scudi umani e il rischio, individuati gli obiettivi militari, è quello di fare altre vittime tra la popolazione.

Ma oltre agli aspetti inerenti la sicurezza c'è un problema culturale e religioso. Il Califfato e il jihadismo non sono soltanto guerriglia e terrorismo: sono l'espressione di una versione radicale dell'Islam che interpreta alla lettera il Corano secondo gli stilemi del settimo secolo. Migliaia di imam, finanziati dalle monarchie del Golfo o sostenuti da organizzazione islamiche private, percorrono il mondo arabo predicando questa versione del Corano intollerante verso la stragrande maggioranza dei musulmani moderati e gli infedeli.

È qui che bisogna agire per impedire non soltanto il reclutamento degli estremisti ma anche che le future generazioni conoscano soltanto l'odio e questa inaccettabile intolleranza. Gli Stati Uniti e l'Occidente hanno molte colpe nel disordine mediorientale: possono intanto smettere di essere complici dei mandanti.

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