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Se l'egemone diventa meno riluttante

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L'ANALISI

Se l'egemone diventa meno riluttante

La Germania ha scoperto in questi ultimi mesi quanto sia cambiata la sua posizione dopo il successo dell'unificazione politica con l'ex Ddr. Essa era già una “potenza” prima di quell'evento, ma aveva pudicamente elaborato la teoria della “potenza civile”: come a sottolineare la diversità rispetto ai sogni di potenza egemonica del secondo e del terzo Reich, quelli della prima e della seconda guerra mondiale.

Si pensava che la rinuncia alla ricerca di un ruolo di potenza anche militare la mettesse al riparo dai fantasmi del passato. Non era così, perché ad essere determinante ben più che l'esistenza o meno di una capacità bellica (non sono più i tempi, non almeno nelle vecchie logiche) è il peso economico e geografico. Quelli si erano sviluppati in modo impressionante dopo la vittoria nella battaglia per l'unificazione/assimilazione della Ddr (pochi avrebbero scommesso realizzabile in così poco tempo e senza pesare troppo sull'equilibrio complessivo del sistema), ma anche dopo il ruolo nodale che Berlino aveva avuto nelle operazioni di allargamento ad Est della Ue (con relativa egemonia in molte di quelle aree).

Se non si tiene conto di questo contesto non si capiranno mai né l'attuale orgoglio dei tedeschi (che certo li porta anche a qualche imprudenza), né le difficoltà che incontrano nell'esercitare quel ruolo di leadership obbligata nella sfera europea, ruolo cui li vincola la posizione che ricoprono attualmente.

La vicenda della Grecia, mettendo il loro governo al centro dell'intreccio politico-diplomatico, ha costretto i tedeschi a fare i conti con questa realtà, ma ha al tempo stesso spinto altri paesi a giocare d'attacco per ridimensionare quel ruolo, che naturalmente è poco gradito in tempi di “sovranismo” nazionale rinascente. L'abilità politica della Merkel, così peculiare che per essa la stampa tedesca ha coniato il termine, suggestivo, di “merkiavellismus”, ha potuto giocare un ruolo, ma non risolvere da sola la partita.

I nemici di una Unione Europea che faccia passi avanti sul terreno dell'integrazione effettiva sono molti. I nuovi populismi che rumorosamente tengono banco in questi tempi rappresentano solo la punta dell'iceberg. Gli improvvisati fan di Tspiras delle varie brigate internazionali sono solo folklore. La battaglia vera si conduce lontano dai riflettori, lasciando che si aizzino le opinioni pubbliche avide di recuperare stereotipi (il tedesco brutale e senza cuore; il “mediterraneo”, greco o no, indolente che vuol godersi la vita a spese degli altri). Gli stereotipi in tempi di crisi e di incertezze verso il futuro sono rassicuranti: illudono la gente che tutto sia spiegabile attraverso l'eterna metafora della lotta fra gli angeli (“noi”) e i demoni (“gli altri”). In questa melassa qualsiasi cosa accada è fatta annegare: tanto è la metafora che spiegherà tutto e così tutto rimarrà alla fine com'è, perché, come è noto, la lotta fra il bene e il male è eterna e non si risolverà mai.

Le cose sono, è troppo ovvio, ben più complicate. Il primo dato su cui riflettere è se sarà mai possibile uno sviluppo verso una maggiore integrazione europea senza uno stato che faccia da motore e da traino. Per quelli che di questi tempi si sono abbeverati di paralleli storici improbabili, ne buttiamo lì uno, un po' meno improbabile per quanto azzardato. Ricordiamoci in Italia come è avvenuta la nostra unificazione nazionale: con le agitazioni mazziniane o con la centralità e l'iniziativa del Piemonte di Cavour? Difficile immaginare dei passi avanti del sistema europeo senza un ruolo importante per quello che è oggi, per varie ragioni e da tanti punti di vista, il paese con maggiori risorse da investire nell'operazione. Aizzare il sentimento antitedesco servirà solo a rendere più difficile il progresso verso un'Europa maggiormente integrata.

Certo questo non può significare appiattirsi passivamente su qualsiasi cosa si pensi a Berlino. I leader funzionano bene solo se sono contenuti e, per così dire, continuamente educati alle responsabilità del loro ruolo. Ciò significa che le classi dirigenti tedesche devono contemporaneamente investire ad educare il loro popolo a pensare nei nuovi termini di responsabilità internazionale che tocca a loro (non è cosa semplice: si pensi alla vicenda dell'isolazionismo statunitense), ma devono anche accettare di inserire nel loro sistema di leadership il meglio che è espresso dagli altri paesi (e non solo i vassalli più ossequienti). In fondo un passo in questa direzione fu pur fatto quando Berlino sostenne la candidatura di Draghi al vertice della Bce. Ci pare che potrebbero riflettere su quanto si sia dimostrata una buona scelta (nella crisi greca avere un tedesco o un uomo del Nord in quella posizione avrebbe complicato non poco le cose)

Qualcosa sembra alla fine essersi mosso in questa direzione con i discorsi e il voto di ieri al Bundestag, ma bisogna che si riveli come qualcosa di più di una buona trovata del “merkiavellismus”. La situazione è troppo seria per uscirne con una semplice guerra di immagini o con un sistema di alternanze fra passi avanti e passi indietro.

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