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Questo articolo è stato pubblicato il 21 luglio 2015 alle ore 06:35.

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La vicenda greca non è finita. Come mostra anche la disponibilità del cancelliere tedesco Angela Merkel a discutere del debito di Atene, il vero punto dolente della questione. Il nuovo memorandum d’intesa, tutto da negoziare, non è infatti destinato ad alleviare le difficoltà del Paese: la Grecia, soprattutto dopo la lunga austerità, non sembra in grado di pagare quanto deve. È una prospettiva un po’ inquietante, questa: se fosse vera significherebbe che “il” problema greco, in questi mesi di colloqui e di scontri politici, non è stato finora mai affrontato.

La Grecia è in crisi dal 2010; da allora ha seguito due programmi della troika, concessi sotto rigide condizioni: realizzare riforme strutturali per aumentare la crescita del Pil nominale (Pil reale più inflazione). Non è chiaro se e con quale serietà il programma sia stato seguito da Atene, che però è sempre stata “promossa” negli esami periodici a cui è stata sottoposta. Il risultato in ogni caso non è stato quello sperato: il Pil greco (sia nominale che reale) si è ridotto del 23% dal 2008 al 2014. Le risorse a cui attingere annualmente per ripagare interessi e debiti si sono quindi ridimensionate quasi di un quarto, e nel 2015 ci si attende un’ulteriore flessione del Pil (reale) compresa tra il 2 e il 4% con un ritorno alla crescita intravisto solo nel 2017.

Non è bastato ridurre l’ammontare del debito. Il secondo programma del 2012 - che ha coinvolto i privati - ha effettivamente ridimensionato l’esposizione del Paese, di circa 100 miliardi, e ha ridotto al minimo gli interessi. Secondo Paul De Grauwe, docente alla London School of Economics, la Grecia deve oggi affrontare tassi medi del 2,2%, il livello più basso tra i Paesi in difficoltà, con una durata media del debito di 16 anni. Basterebbe quindi una crescita del Pil nominale superiore a quella soglia del 2,2% per rendere il debito sostenibile. Non è un compito impossibile: Atene prima della crisi - sia pure con tutti gli eccessi che hanno portato all’attuale situazione - ha realizzato un aumento medio del Pil nominale del 7,7%. In astratto, sembrerebbe che occorra poco, quindi, per raddrizzare la situazione. Un po’ di pragmatismo, suggerisce De Grauwe, grande esperto di Unione monetaria, da parte dei partner e della Bce.

Quanto sia delicato per la Grecia il nesso tra crescita e capacità di ripagare il debito è del resto noto da tempo. Da sempre, il Fondo monetario internazionale avverte che la sostenibilità del debito greco è vulnerabile agli shock - quindi a eventi inattesi o imprevisti - sulla crescita. I due mini-rapporti che il Fondo monetario ha pubblicato a luglio sulla Grecia hanno quindi sorpreso soltanto per la tempistica: il primo è circolato poco prima del referendum greco, e ne ha alimentato il dibattito pre-elettorale, il secondo subito dopo l’approvazione dell’intesa dell’euro-summit concluso il 13 mattina. Inevitabili le polemiche. Il contenuto, però, non può stupire: il debito greco non è sostenibile sulla base delle attuali prospettive di crescita - dice in buona sostanza il Fondo - e l’alleggerimento necessario è superiore a quanto gli europei siano disposti a prendere in considerazione. L’Fmi suggerisce un aumento del periodo di grazia (in cui il pagamento degli interessi è sospeso) di circa 30 anni.

Anche la Commissione Ue ha pubblicato - con data 10 luglio - una propria valutazione, effettuata insieme alla Bce, in cui parla di «serie preoccupazioni» sulla sostenibilità del debito greco suggerendo una «lunga estensione delle scadenze dei vecchi e nuovi prestiti, una dilazione degli interessi, e un finanziamento a tassi da tripla-A» pur riconoscendo che questa soluzione «lascerebbe comunque la Grecia con un rapporto debito/Pil molto alto per un periodo prolungato».

I partner della Grecia, ha però ragione il Fondo, non hanno finora sentito ragioni: l’apertura di Angela Merkel è per ora solo un primo e piccolissimo spiraglio. Finora, di crescita si è infatti parlato relativamente poco. Il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble già nel 2010 - in un articolo sul Financial Times in cui già prospettava l’uscita dall’euro di Atene - invocava per la Grecia e i Paesi che chiedevano aiuto «rigide clausole e un costo proibitivo» e non affrontava, se non en passant e attraverso l’inconcludente concetto della “competitività” (che ha senso per le singole imprese, non per i Paesi) il tema dell’aumento dell’attività economica. Nelle recenti trattative il tema - che non sembra caro neanche ad Atene - è sempre stato in secondo piano. È vero che non è un argomento semplice per un Paese che ha solo quattro settori in grado di trainare l’economia (turismo, commercio al dettaglio, lavorazione dei prodotti alimentari, e materiali da costruzione), ma l’unico vero programma “tagliato” sulla Grecia, evitando l’applicazione generica di una ricetta preconfezionata, è stato elaborato dall’Ocse solo nel 2013 (ed è stato preso parzialmente in considerazione durante le trattative).

Di tagli al debito si è parlato invece solo per escluderli. I “falchi” alla Schäuble hanno in realtà un argomento forte, dalla loro parte: il Trattato di Lisbona che, all’articolo 125, vieta a ciascuno Stato membro, e all’Unione nel suo complesso, di farsi carico degli impegni assunti da governi e aziende pubbliche, fatte salve «le garanzie finanziarie reciproche per la realizzazione in comune di un progetto economico specifico». È per questo motivo che il presidente della Bce, Mario Draghi, ha ricordato che occorre trovare il modo di superare queste difficoltà «giuridiche»; ed è per questo motivo che il Fondo monetario internazionale - dopo aver assistito al taglio del debito latinoamericano, che si rivelò l’unica soluzione alla lunga crisi debitoria del continente - non ha potuto far altro che suggerire un’estensione delle scadenze e del periodo di grazia e non un vero taglio (che l’euro-summit ha esplicitamente escluso).

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