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Così il motore cinese ha smesso di ruggire

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TRA SQUILIBRI E RIFORME

Così il motore cinese ha smesso di ruggire

Sabato 1° agosto l’Istituto nazionale di statistica cinese ha registrato il calo dell’indice Pmi di luglio a 50 punti netti, proprio sulla soglia sotto la quale il parametro indica contrazione dell’attività economica. Sette giorni dopo, l’Agenzia delle dogane ha fotografato la frenata degli scambi commerciali per lo stesso mese, con il crollo dell’8,3% delle esportazioni su base annua, mentre le importazioni sono diminuite del 6,1%. Il giorno successivo, domenica 9 agosto, il Governo ha comunicato il nuovo raffreddamento dei prezzi alla produzione, con un calo del 5,4%, il più brusco in sei anni. Sono solo i più recenti sintomi del prolungato stato di crisi dell’economia cinese ed è in questo contesto che si inserisce la decisione della Banca centrale cinese di svalutare lo yuan e di modificare il regime di regolamentazione del cambio.

La mossa insegue molteplici obiettivi, dalla progressiva liberalizzazione della moneta all’avvicinamento agli standard richiesti dall’Fmi per entrare nel suo paniere dei Diritti speciali di prelievo. Svalutare è anche un modo per combattere i rischi di deflazione e dar fiato a un’economia in difficoltà e che non ha ancora reagito ai numerosi interventi di sostegno, come i quattro ribassi dei tassi varati da novembre dell’anno scorso. Dalla metà del 2014, il cambio effettivo reale dello yuan è però salito del 18,5% e un deprezzamento (per ora) dell’1,8% può restituire ben poca competitività alle aziende cinesi. Nei primi sette mesi dell’anno, l’export è sceso dello 0,8% su base annua (in dollari), mentre le importazioni sono calate del 14,6%. I flussi verso l’Unione europea sono caduti del 12% nel mese di luglio, quelli verso il Giappone del 13%, solo dell’1,35% quelle nei confronti degli Stati Uniti. Non a caso, apprezzatosi nei confronti di euro e yen, negli ultimi mesi lo yuan è rimasto sostanzialmente stabile contro il dollaro.

La Cina è alle prese da tempo con un esperimento di ingegneria economica che dovrebbe trasformarne il modello di crescita per sottrarla alla trappola del reddito medio. Uscita dal sottosviluppo grazie al traino degli investimenti e delle esportazioni a basso costo, Pechino vorrebbe ora puntare su valore aggiunto e consumi interni. La crescita dei salari medi, seppure già intacca la competitività, non è però ancora sufficiente a far decollare la domanda interna, in una fase di perdurante debolezza dell’economia globale, che sottrae al motore cinese l’altra componente della domanda, quella estera.

La crescita continua così a perdere colpi e si è già attestata sul tasso più basso degli ultimi 25 anni, quel 7% posto come target per il 2015 e centrato al decimale nel secondo trimestre dell’anno. E che però convince sempre meno.

Le statistiche cinesi non hanno mai brillato per attendibilità, ma i dubbi si fanno via via più consistenti man mano che i sottoindicatori economici si discostano dal dato aggregato del prodotto interno lordo. Come sottolineava già a marzo un report di Ruchir Sharma, analista di Morgan Stanley, «l’ossessione delle autorità di conseguire o superare i loro obiettivi ufficiali è nota da tempo, ma ora questi target sono andati oltre i livelli sostenibili da un’economia a reddito medio che sta maturando. Secondo le nostre stime, il tasso effettivo di crescita è di 2-3 punti percentuali inferiore al nuovo target del 7%». Dato che gli investimenti rappresentano poco meno del 50% del Pil cinese, argomenta Sharma, l’unico modo per compensarne il rallentamento sarebbe un boom della spesa pubblica o dei consumi. Ma le vendite al dettaglio mostrano che anche i consumi sono deboli e «la spesa pubblica attualmente cresce a un tasso annuo inferiore al 6%, in discesa dai picchi del 20% toccati tra il 2008 e il 2013».

Gli scettici delle statistiche cinesi puntano il dito anche sui consumi energetici. Il 27 luglio la National energy administration ha fatto sapere che nella prima metà del 2015 questi sono aumentati appena dello 0,7%, su base annua, in calo dal +2,2% per l’intero 2014. Dati coerenti con una crescita del Pil del 4%, secondo Gary Hufbauer del Peterson institute for international economics di Washington, che arriva così a una stima vicina a quella proposta da Sharma di Morgan Stanley. Nel primo trimestre del 2015, i consumi di energia sono saliti dello 0,8% e il Pil del 7%, contro il 3,8% del 2014, quando la crescita è stata del 7,4%.

Secondo Fathom Consultancy, consumi energetici e produzione industriale suggerirebbero una crescita ancora più bassa, addirittura ferma al 3%.

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