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Una mossa ardita ma non ancora sufficiente

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Cina e borse

Una mossa ardita ma non ancora sufficiente

Tre mosse, in contrasto tra loro. La Banca del popolo cinese ha reagito alle tensioni che si sono create sui mercati, e che sono il riflesso - sia pure amplificato - delle sue difficoltà interne, cercando di inseguire obiettivi in contrasto tra loro. È un segnale di quanto sia complicato il compito della politica economica in un paese così complesso, che ha bisogno di misure più ambiziose, forse di un quantitative easing in stile tutto “cinese”.

Due mosse sono state ampliamente pubblicizzate e vanno nella stessa direzione. Dopo il nuovo crollo della Borsa di Shanghai, la Banca centrale ha tagliato i tassi sui depositi di 25 punti base all’1.75% - è il settimo taglio consecutivo da giugno 2012 - con l’obiettivo immediato di ottenere l’ immediata revisione delle valutazioni dei titoli finanziari (abbassando i tassi di riferimento, sale il valore attuale degli assets e quindi, si prevede, le quotazioni). Ha inoltre ridotto di 50 punti base al 18% - il livello di novembre 2010 - la riserva obbligatoria, la quota di liquidità che le banche sono costrette a tenere parcheggiata presso la banca centrale: è questo lo strumento di politica monetaria più incisivo nel sistema cinese, che reagisce relativamente poco ai tassi. Ha quindi potenzialmente aumentato la liquidità in circolazione e alimentato le aspettative di ulteriori mosse espansive.

La terza mossa è nascosta, ma gli operatori l’hanno percepita bene, e così lo yuan. La banca centrale, come nei giorni scorsi, ha venduto dollari attraverso le sue banche agenti e ha acquistato valuta nazionale per impedirle di calare ulteriormente come il mercato l’avrebbe spinta a fare. Ha così distrutto liquidità - esattamente l’opposto di quanto ha fatto con le altre due misure - e ha tenuto fermo il cambio a un livello attorno a 6,41 yuan per un dollaro, ancora il 18% in più rispetto alle quotazioni prevalenti fino a gennaio 2010.

Questo significa che le condizioni monetarie della Cina sono ancora molto “strette”. I tassi sui depositi - peraltro parzialmente liberalizzati, e quindi meno sensibili alle indicazioni della politica monetaria - restano superiori a un’inflazione non certo elevata (1,6%), la riserva obbligatoria è ancora molto elevata, lo yuan è - e soprattutto resta - sopravvalutato: dal 2005 al 2014 il cambio effettivo (rispetto a tutte le principali valute) reale (al netto dell’inflazione) si è apprezzato del 41%, secondo i dati della Banca mondiale. Non è una situazione di vero “accomodamento” monetario.

La Banca del popolo cinese ha per sua sventura un vincolo: deve evitare una fuga di capitali dal paese, che aggraverebbe le condizioni dei mercati finanziari, da tempo in tensione. Una manovra davvero espansiva, che si rifletta quindi anche sulla valuta, stimoli le esportazioni e per questa via sostenga nel medio periodo i mercati azionari non è perseguibile in modo lineare: nell’immediato troppi investitori fuggirebbero via, lasciando la banca centrale priva di strumenti. Al momento, allora, la Bpoc preferisce premere sull’acceleratore e sul freno. Nell’immediato può funzionare, ma così facendo si acquista solo tempo.

Alla Banca del Popolo occorrono - contro il pericolo di una bolla e di una forte frenata - misure molto più ambiziose. Anche un quantitative easing, nel caso, ma in salsa cinese, molto selettivo, adattato alla situazione molto particolare del sistema economico e finanziario - potrebbe essere definito “barocco” - che non ha mai risposto ai semplici aumenti di liquidità, che pure sono necessari ma che sono più adatti alle economie avanzate. Un Qe cinese non potrebbe non passare anche attraverso l’acquisto di azioni, in una sorta di rinazionalizzazione temporanea, parziale delle aziende, ma totale delle banche: il sistema meno costoso - sulla base di mille esperienze - per risanare il sistema creditizio. Per una burocrazia statale e di partito, tutto questo non sarà un compito facile; e sarà comunque molto costoso

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