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Questo articolo è stato pubblicato il 29 agosto 2015 alle ore 08:11.
L'ultima modifica è del 29 agosto 2015 alle ore 08:47.

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JACKSON HOLE

Una stretta monetaria americana a settembre è tornata all’ordine del giorno, ma non è certa. Dal Simposio annuale della Federal Reserve, influenti leader della Banca centrale statunitense, dal vice-presidente Stanley Fischer al governatore della sede di St. Louis James Bullard, hanno cercato di guardare oltre le bufere sulle piazze finanziarie e la paure per la Cina. E hanno indicato che la Fed considererà seriamente l’avvio di una manovra di normalizzazione della politica monetaria fin dal prossimo vertice del 16 e 17 settembre. Hanno tuttavia precisato che una decisione al momento non può essere ancora presa e che, anzi, le prossime due settimane saranno cruciali per esaminare dati sulla solidità dell’economia, interpretare la volatilità dei mercati e risolvere il dibattito sui tempi del primo intervento restrittivo in nove anni. Proprio le bufere sui mercati e le loro ripercussioni, hanno ammesso, sono l’ostacolo principale.

«Ancora di recente il caso per un rialzo dei tassi a settembre era piuttosto robusto», ha detto Fischer ai margini della conferenza alla quale interverrà oggi durante un panel sulle dinamiche dell'inflazione. «Abbiamo tempo per valutare i prossimi dati» ha però subito aggiunto. «Il cambiamento di circostanze cominciato con la svalutazione cinese è relativamente nuovo e stiamo ancora osservando come si evolve. Quindi è presto per decidere adesso quale delle due tesi in discussione possa prevalere, cioè se un rialzo sia oggi meno convincente oppure più convincente». In ogni caso, ha rassicurato chi temesse scomposte, «non intendiamo decidere rapidi aumenti dei tassi», che rimarranno accomodanti ancora a lungo.

Fischer ha espresso ottimismo sullo stato dell’economia statunitense. Venerdì prossimo uno degli ultimi segnali determinanti sul fronte domestico dovrebbe arrivare dalle statistiche sull’occupazione di agosto. L’impatto di una frenata della Cina, ha previsto, sarà «scarso» - alcuni analisti lo stimano in 0,2 punti di Pil - anche se di maggior peso potrebbe essere l’effetto di un contagio nella regione asiatica. E ha detto di essere «molto fiducioso» in una traiettoria dell’inflazione statunitense che si avvia verso il target ideale del 2%, giudicando transitori fenomeni quali il calo del greggio.

Più complesso è al contrario prevedere chiarimenti sui mercati: Fischer ha ammesso che «tuttora non comprendiamo pienamente la volatilità, e questa ha un impatto sull’orizzonte temporale di una decisione che potremmo voler prendere». Fischer ha tuttavia aggiunto che queste tensioni «potrebbero anche stabilizzarsi abbastanza rapidamente».

Bullard ha incalzato con maggior foga di essere a favore di un rialzo già a settembre, confermando però a sua volta che il nodo da sciogliere sono le tensioni sui mercati. «L’outlook non cambia molto a causa della volatilità - ha detto - ma i vertici della Fed non hanno mai amato muoversi in simili momenti». Qualora la volatilità fosse ancora troppo elevata a settembre, Bullard ha ipotizzato una stretta rinviata non a dicembre ma soltanto al vertice del 27-28 ottobre, con la convocazione di una conferenza stampa in quell'occasione non prevista, un fattore che ha finora fatto escludere la data per una possibile decisione. Loretta Mester, della sede di Cleveland e considerata un “ponte” fra falchi e colombe dentro la Fed, ha da parte sua indicato che l’economia americana (reduce da un +3,7% del Pil nel secondo trimestre e da un +2% di ordini di beni durevoli in luglio) «è in grado di sopportare un rialzo dei tassi».

Che la partita non sia chiusa dentro la Banca centrale lo sottolinea però all’estremo opposto Narayana Kocherlakota, della Fed di Minneapolis: ieri ha ribadito che i tassi dovrebbero rimanere vicini allo zero, dove sono ormai dal 2008, almeno fino alla fine dell’anno. L’inflazione, infatti, è assente e a suo avviso una stretta prematura telegraferebbe ai mercati soprattutto sfiducia nella capacità dell’economia di riprendersi a sufficienza per tornare a raggiungere il target del 2% nei prezzi. Nei giorni scorsi il governatore delle sede di New York della Fed, William Dudley, gli aveva dato man forte indicato che le ragioni di un intervento restrittivo quantomeno a settembre si sono indebolite.

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