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Il debito monstre e la caccia ai trader

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OMBRE CINESI

Il debito monstre e la caccia ai trader

Si è aperta in Cina la caccia grossa agli speculatori di Borsa, a chi ha lucrato sulla pelle di milioni e milioni di piccoli investitori e di aziende in cerca di finanziamenti per ripianare debiti corporate più che per sostenere nuove intraprese.

Le autorità di controllo hanno messo sotto inchiesta cinque società di intermediazione finanziaria, pezzi da novanta come Haitong Securities, GF Securities, Huatai Securities, Founder Securities e, perfino, la star del brokeraggio cinese, Citic securities. Si prospetta un’indagine alla quale la Cina non è abituata, è la prima volta che una crisi finanziaria ha l’epicentro in un Paese che non è ancora in linea con le regole del capitalismo occidentale. Tutti capri espiatori, i cinque operatori, di una congiuntura che in ogni caso ha avuto l’effetto di togliere il velo all’indebitamento preesistente di aziende e privati, una zavorra che adesso in Cina rischia di esplodere proprio per effetto del crollo dei mercati. La corsa dei listini finanziata da soldi presi a prestito rischia di generare altri debiti per ripianare le perdite e via, così, all’infinito.

Per quanto il Paese abbia continuato a nicchiare sull’indebitamento crescente e sul peso altrettanto consistente del debito pubblico rispetto al Pil appellandosi alla piena sostenibilità degli impegni presi, dopo lo scivolone innescato dalle borse il 3 luglio anche per le autorità cinesi diventa difficile negare i contorni reali del problema. Per mesi e mesi gli organi ufficiali hanno attutito la rilevanza di quei 28mila miliardi di dollari di soldi presi a prestito che hanno fatto schizzare il debito privato al 200% del Pil.

La stima è targata McKinsey, perché la tesi ufficiale sulla crescita dell’indebitamento fa leva sul fatto che la Cina, un Paese in via di sviluppo, parte da livelli decisamente bassi rispetto alle economie ben più avanzate. Insomma, “gli altri” sono messi peggio e via andare con sottili distinguo e dotte disquisizioni sulla composizione del debito dello Stato. Non è forse vero che gli Stati Uniti sono indebitati complessivamente tra debito pubblico e privato per una cifra pari a 2,7 volte il Pil prodotto annualmente? Rispetto a queste prestazioni ci sono ancora ampi margini.

La Cina in realtà ha fatto finta di ignorare il problema, fatta eccezione per il bubbone più consistente, quello relativo al debito degli enti locali schizzato praticamente a un terzo del Pil. Un filone devastante, anche dal punto di vista sociale e ambientale. Su questo fronte Pechino si è dimostrata molto più attenta, grazie anche all’impegno del ministro delle Finanze Lou Jiwei autore dal 1° aprile scorso di una riforma strategica per le finanze locali che punta a risanarle imputando la responsabilità delle scelte alle stesse realtà locali e ad aprire a nuove emissioni di local bond, vietati da una vecchia legge di bilancio del 1994.

Smaltire la zavorra dei crediti inesigibili e innescare un nuovo corso con i nuovi local bond favoriti da un costo del denaro più abbordabile. Se questo era lo scopo della riforma ben si capisce come il tracollo borsistico abbia tarpato le ali ai buoni intenti del ministro: chi comprerà, adesso, questi bond che stavano muovendo finalmente i primi passi?

Lou Jiwei ha indirettamente rimosso l’ostacolo principale ovvero il divieto per gli enti locali di emettere local bond grazie allo stratagemma di approvare ufficialmente l’espansione degli obiettivi del National social security fund (Nssf), un passo preliminare per risolvere il problema del profondo rosso degli enti locali cinesi. Il Consiglio di stato ha deciso di autorizzare il prelievo di oltre 300 miliardi di yuan, pari a 48 miliardi di dollari, dall’Nssf, da investire in bond locali e altri strumenti finanziari durante tutto il 2015.

Una mappatura datata giugno 2013, al termine di un monitoraggio degli ispettori del National audit office, ha appurato che il debito locale cinese era di 17.900 miliardi di yuan, 2.930 miliardi di dollari Usa. Del nuovo monitoraggio attivato sui conti del 2014 si son perse le tracce.

Il cuore della svolta strutturale dell’economia cinese sta proprio nei meccanismi della finanza locale e nel difficile bilanciamento tra poteri centrali e quelli periferici. E un costo del denaro più allettante può favorire gli acquisti, ma nonostante il piano concordato tra Governatore della Banca centrale e ministro delle Finanze per introdurre nuove regole del gioco attraverso la nuova legge di bilancio, la realtà si è rivelata ben più amara delle aspettative.

Nei fatti la Cina poggia su 28mila miliardi di dollari di soldi presi a prestito da Governo e privati, un peso che negli ultimi sette anni è cresciuto quadruplicando le dimensioni in gran parte a causa della bolla immobiliare, a sua volta finanziata dalla galassia dello shadow banking, pari a oltre il 32% del Pil. Una bestia nera del sistema, a volte tollerata, a tratti combattuta, in ogni caso difficilmente eliminabile dal giorno alla notte. L’ultima retata su un gruppo di banche di fatto, non autorizzate, risale a qualche giorno fa appena.

Il solo debito delle imprese cinesi è destinato a salire nel 2019 fino a toccare il 40% di tutti i debiti corporate mondiali, pari a 70mila miliardi dai 50mila del 2014. Quindi un ruolo, suo malgrado, di primo piano reso ancora più probabile dal salasso finanziario mondiale acuito dalla crescita rallentata.

La fine dell’era del toro ha fatto svaporare la nebbia che occultava il reale peso del debito cinese, ma ogni intervento a soccorso delle borse in crisi o comunque a sostegno dell’economia può realizzarsi con un costo preciso. Inclusa l’iniezione di nuova liquidità realizzata anche attraverso il taglio dei tassi. Anzi, tassi ancor più risicati genereranno inevitabilmente altro debito. Come se ne esca, difficile dirlo. Per la Cina (e per il mondo intero, come si è visto) il motto più azzeccato è uno solo: “primum vivere”.

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