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La foto del bimbo a Bodrum: perché è lecito pubblicare un’immagine shock

Da qualche giorno i giornalisti discutono se sia opportuno pubblicare le fotografie del bambino siriano annegato sulle coste della Turchia. Noi ci interroghiamo su una questione ancora precedente: è lecito diffondere queste immagini? L'art. 15 della legge stampa vieta la pubblicazione di immagini che possono turbare «il comune sentimento della morale» per i contenuti «impressionanti o raccapriccianti». Si tratta di una fattispecie tanto indeterminata da consentire in astratto un'inaccettabile compressione della libertà di espressione, secondo la personale concezione etica di ciascun giudice che si trovasse ad applicarla. Tale rischio è stato opportunamente arginato da una sentenza della Corte Costituzionale (n. 293 del 2000), che ha circoscritto il divieto alle sole immagini che ledono la dignità della persona, intesa come valore fondante e comune alla pluralità delle concezioni etiche della società contemporanea. E, per comprendere se vi sia davvero una lesione alla dignità della persona, occorre valutare non solo l'immagine in sé ma il contesto in cui si inserisce e, in ultima analisi, il rilievo pubblico della notizia.

Così, per ricordare un caso della storia italiana, mentre la foto del corpo di Moro accovacciato nella Renault 4 era certamente pubblicabile, è stato ritenuto che non lo fosse l'immagine del cadavere nudo all'obitorio. Queste regole sembrano dirci che, sul piano giuridico, la diffusione delle foto di Bodrum possa essere considerata lecita. In primo luogo, la maggior parte di quelle pubblicate sono sostanzialmente anonime: il corpo è spesso ripreso di spalle o il volto è coperto dal poliziotto che lo tiene in braccio. Non pare esservi perciò una violazione della sua memoria e del riserbo della famiglia. Inoltre, proprio il fatto che il bambino non sia riconoscibile aiuta a rendere l'immagine ancora più emblematica. In fondo quello del piccolo è il corpo di tutti i bambini annegati e che ancora annegheranno fuggendo nel Mediterraneo. Diventa quindi, come è stato scritto, l'icona di un fenomeno di straordinario interesse pubblico per le dimensioni e per il carico di dolore.

Di più, queste foto non sembrano togliere ma semmai dare dignità. In primis a chi vi compare, riconosciuto come individuo nella sua unicità e non più come numero in una massa indistinta. Il ritratto della sofferenza di uno ci pare attribuire, poi, quella stessa dignità a tutti quelli che, come lui, attraversano il mare alla ricerca di una vita lontano dalla guerra. Una dignità che non è concetto astratto, ma significa essere considerati ognuno con la propria storia, non essere trattati come bestie o lasciati morire. E, occorre ammetterlo, a tanti questa dignità è stata poco riconosciuta.Insomma, il registro scioccante è consentito dallo straordinario interesse pubblico del fenomeno e insieme dall'effetto prodotto dalle foto, che impongono di guardare quel bambino e tutti gli altri uomini come singoli e non come una moltitudine.

È per questo che il diritto accetta che si mostri chi è affogato nel migrare, ovvero la Storia, e non chi è morto in un incidente, cioè un episodio di cronaca nera. Tuttavia, lo confessiamo, anche sul piano delle regole il confine tra corretta informazione e morbosità illecita non è affatto facile da trovare, soprattutto in casi così tragici. Se il bambino avesse avuto addosso i segni visibili della morte e in ipotesi fosse stato sfigurato, forse questo avrebbe indotto a riflessioni diverse e magari condotto a conclusioni opposte.

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