L'Italia di fronte alla crisi dei debiti sovrani e delle conseguenze sociali delle politiche dell'austerity non esce bene dal paragone con altri 112 Paesi stilato dal World economic forum, l'ente che organizza ogni anno il vertice economico di Davos. Nel report l’Italia si colloca a fondo alla classifica tra i Paesi avanzati, salvata dalla Grecia - che come diceva Winston Churchill è stata creata per permettere all'Italia di non essere ultima in classifica - che fa peggio di noi.
L'Italia prende una serie di voti insufficienti nell’«Inclusive Growth and Development Report 2015» del World Economic Forum, un corposo studio che è stato reso noto dopo due anni di lavoro sul tema delle disparità di reddito e dell'inclusione sociale. Temi che sarebbero sicuramente apprezzati da Thomas Piketty, l'autore del fortunato best seller «Il Capitale nel XXI secolo» che prende in esame quali sono le grandi dinamiche e ineguaglianze che guidano l'accumulazione e la distribuzione del capitale in questo periodo storico, dal “Secolo breve” dello storico britannico Eric Hobsbawm ad oggi. Hobsbawm divide il Novecento in guerra dei trent'anni che va dal 1914 al 1945, cioè le due guerre mondiali e la pace del 1945 fino alla caduta del comunismo nel 1991. Il Novecento è quindi “breve” perché va dal 1914 alla caduta del comunismo nel 1991. Il periodo successivo, secondo Hobsbawm è determinato da grave incertezze sul futuro perché sono venuti meno il sistema della guerra fredda. A queste incertezze geopolitiche si è aggiunta la finanziarizzazione dell'economia e la crisi dei mutui subprime scoppiata nel 2007.
Questo è il complesso contesto dove il rapporto del Wef affonda le sue analisi comparate.
Il report - alla sua prima edizione - prende in esame un campione di 112 Paesi, suddivisi per grado di sviluppo (le nazioni avanzate sono 30 e questo è il campionato dove gioca l'Italia) e li esamina in 7 macro-aree (istruzione, occupazione e retribuzioni, imprenditorialità, intermediazione finanziaria, corruzione, servizi e infrastrutture di base, trasferimenti fiscali), ricorrendo a 140 indicatori quantitativi che analizzano il contesto individuando punti deboli e best practice nel rapporto tra crescita economica ed equità sociale.
L'obiettivo dello studio è «migliorare la comprensione di come i Paesi possono utilizzare i meccanismi istituzionali e gli incentivi di politica per rendere la crescita economica più socialmente inclusiva», un tema molto sentito nel mondo anglosassone cioè fare sì che l'innalzamento degli standard di vita o i costi sociali delle crisi finanziarie vadano a beneficio o distribuiti equamente fra tutti.
Il voto sull'Italia non è lusinghiero. Sono fonte di «particolare preoccupazione» l'alto livello di corruzione e la scarsa etica della politica e del business, che hanno implicazioni per molte altre aree e sono tra le peggiori tra i Paesi avanzati. La disoccupazione è elevata ed è associata ad elevate percentuali di lavoratori part-time involontari e da persone con occupazione precarie e vulnerabili. La partecipazione al lavoro delle donne alla forza-lavoro è estremamente bassa (come ricorda da anni anche l'Ocse).È modesta la creazione di nuove imprese, linfa vitale dell'economia, che possano alimentare nuove opportunità di occupazione, né è agevole ottenere i finanziamenti per farlo. L'Italia è ultima (30esima su 30) tra i paesi avanzati come accesso delle aule scolastiche a internet.
«Il sistema di protezione sociale, che non è né particolarmente generoso, né particolarmente efficiente, accresce il senso di precarietà e di esclusione del Paese». I 'voti' della pagella italiana sono «ampiamente sotto la media» se paragonati agli altri 29 Paesi avanzati. Solo la Grecia appare in generale su posizioni più scarse di quelle italiane. Per l'etica della politica e del business l'Italia è al 29esimo posto, con un punteggio di 2,96. La Finlandia (che pure oggi non naviga in acque tranquille) è a 6,3 e i Paesi nordici sono in generale sopra al 6. L'insufficienza è netta anche nell'imprenditorialità (29esimo posto con un punteggio di 3,53) con costi per aprire un business nuovo al 29esimo posto, con un punteggio di 16,5. Ultimo posto per le infrastrutture di base e digitali. Penultimo per l'inclusione del sistema finanziario e per l'occupazione produttiva, mentre c'è un sorprendente ottavo posto per le retribuzioni e una elevata densità di sindacalisti in percentuale della forza lavoro all'8 posto, per un punteggio di 35,6.
Per l'istruzione la Penisola è 26esima, sostenuta dall'accesso alla scolarità (15esima posizione), ma trainata verso il basso dalla qualità (28esima). Per la protezione sociale (voto 4,33) è 22esima. Scegliendo a caso tra i vari indicatori quantitativi, colpisce l'ultimo posto rimediato dall'Italia per l'entità e l'effetto della tassazione sugli incentivi sia al lavoro (voto 1,95 su 7), sia agli investimenti (2,03).
Per il cuneo fiscale c'è la 25esima piazza, con un totale del peso fiscale in percentuale del totale del costo del lavoro del 47%,10 un elemento che mette a nudo come ci sarebbero enormi margini di miglioramento per rendere più competitiva la nostra economia e manifattura (la seconda d'Europa) prima di pensare a rilanciare i consumi interni.
In compenso l'Italia è al settimo posto per la pressione fiscale sul Pil, con il 42,9%. Per l'efficacia del Governo nella riduzione della povertà e delle disparità il voto è un modesto 2,51 su 7 che assegna all'Italia un penultimo posto. Un'altra maglia nera arriva per lo spreco del denaro pubblico, con un punteggio di 1,87. Lo studio elenca anche i principali indicatori di performance, quali il Pil pro capite (34.715 dollari, 22esimo posto), la produttività (20esimo), la disparità di reddito sulla base dell'indicatore di Gini (19esimo posto ante-trasferimento fiscali e il 22esimo post-trasferimenti), il tasso di povertà (12,6%, 21esimo posto). Tra i calcoli dello studio anche l'equità tra generazioni che vede l'Italia al 28esimo posto per il debito pubblico e al 26esimo per il risparmio netto. Il Wef fa notare che i Paesi più inclusivi e coesi e quindi più equi sono anche quelli più competitivi. E l'Italia, quanto a competitività totale, resta saldamente nel plotone di coda, con un modesto 27esimo posto su 30 nazioni avanzate. C'è molto da fare e ci sono margini di miglioramento.
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