È una Federal reserve decisamente meno aggressiva, quella che emerge dalla riunione di settembre. Basti un unico fatto, al di là delle parole del comunicato, così ricche di riferimenti alla situazione internazionale e alle ridotte pressioni sui prezzi: uno dei governatori, invitato come ogni trimestre a prevedere il livello previsto dei tassi ufficiali - e quindi l’orientamento della politica monetaria - a fine anno e a fine 2016, ha indicato, per la prima volta, un tasso negativo: -0,125%. Anche se, secondo il presidente Janet Yellen, non è ovviamente un’ipotesi concreta nella situazione attuale, non era mai capitato da quando la Fed pubblica queste informazioni.
L’insieme del Comitato di politica monetaria (il Fomc) indica ora per fine anno tassi ufficiali dello 0,40% in media e dello 0,375% in mediana (dall’attuale 0-0,25%). Anche questi numeri sono i minimi indicati per il 2015 da tre anni a questa parte, ma lasciano aperta la porta a un primo rialzo dei tassi il 30 ottobre - il presidente Yellen ha esplicitamente riconosciuto in conferenza stampa che è una possibilità - oppure il 18 dicembre .
Il motivo è facile da individuare: la Fed teme una tendenza al ribasso sull’inflazione, malgrado una situazione economica in miglioramento. Il comunicato parla ora di pressioni derivanti non più da «precedenti cali nei prezzi dell’energia», ma da flessioni che sono considerate attuali; mentre le aspettative di inflazione di mercato si sono «mosse più in basso», mentre a giugno erano semplicemente «rimaste basse».
Hanno inciso le turbolenze internazionali. Un rialzo è stato preso in considerazione, ha spiegato Yellen, ma è stato escluso anche per l’andamento dell’economia globale che ha irrigidito le condizioni finanziarie anche negli Usa: è stato come un piccolo rialzo dei tassi deciso però da mercato. «I recenti sviluppi economici e finanziari globali - recita il comunicato - possono un po’ comprimere l’attività economica e porranno verosimilmente pressioni al ribasso sull’inflazione nel breve termine», mentre il presidente ha fatto specifico riferimento alle interrelazioni tra il sistema economico americano e il sistema globale, le quali richiedono un attento monitoraggio; e al rischio che la Cina subisca un rallentamento più brusco del previsto.
Centrale sembra essere il riferimento al breve termine. Le proiezioni di settembre sull’andamento dei prezzi per i prossimi anni non indicano, al momento, una dinamica dei prezzi molto più lenta rispetto a giugno: l’inflazione Pce potrà si fermerà quest’anno allo 0,4%, dallo 0,7% precentemente stimato, ma nel 2016 salirà all’1,7% (dall’1,8% indicato a giugno), nel 2017 all’1,9% (dal 2%) e nel 2018 dovrebbe infine centrare l’obiettivo del 2%. Soprattutto, il range delle proiezioni, e quindi anche la loro incertezza, non è mutata rispetto a tre mesi fa.
Il rinvio del primo rialzo dei tassi, che fino a qualche settimana fa era previsto per questa riunione di settembre, si ripercuoterà però su tutta la durata e anche l’intensità della prossima stretta: i tassi ufficiali per fine 2016 sono ora previsti dai governatori nell’1,48% medio (1,375% mediano) dall’1,76% di giugno (1.625 mediano); e quelli per fine 2017 sono indicati nel 2,64% medio (2,625 mediano) dal 3% di giugno (2,875%) mediano. Le previsioni per il 2018, elaborate per la prima volta, indicano un livello medio del 3,34% (3,375% mediano). Anche il livello “di lungo periodo”, che si può considerare quello in una situazione “normale”, è stato però abbassato al 3,5% medio e mediano, dal 3,65 (3,75% mediano) indicato a giugno. Segno che, almeno marginalmente e in apparente contraddizione con il riferimento al breve termine, il Comitato ritiene che la struttura dell’economia Usa sia diversa da quella finora immaginata: il livello sostenibile di disoccupazione, quello che non genera inflazione, è ora indicato nel 4,9% e non più nel 5,0%.
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