Mondo

Parigi e il muro delle 35 ore che blocca il mercato del lavoro

  • Abbonati
  • Accedi
La Francia malato d'Europa

Parigi e il muro delle 35 ore che blocca il mercato del lavoro

Crescita zero nel secondo trimestre, produzione industriale in calo dello 0,8% a luglio, investimenti fermi, una disoccupazione che non si muove dal 10,3% (24% per i giovani) con un periodo medio di iscrizione alle liste di collocamento salito ormai a 18 mesi. E non si tratta soltanto di episodici dati congiunturali. Nonostante il dinamismo e la forza delle sue grandi imprese globali, nonostante la quantità e la vivacità delle sue start up, la Francia ha imboccato la strada di una sorta di paralisi.

Nonostante, ancora, le sue grandi scuole, i suoi ingegneri, il suo invidiabile capitalismo familiare, nonostante la crescente volontà di cambiamento espressa da una parte (certo ancora minoritaria) della sua popolazione, da ormai dieci anni la Francia sembra aver imboccato la strada di una paralisi economica, se non addirittura di un declino.

Troppa spesa pubblica, troppe tasse, troppo Stato (che invade tutti i campi con una bulimia normativa), una classe politica pavida e senza visione incapace di varare le riforme strutturali di cui il Paese ha un bisogno vitale, un sindacato che sulla carta è uno dei più deboli dell’Europa occidentale (l’8% di aderenti, il 4% nel privato) ma che conserva un’enorme capacità di condizionamento (e di freno) alle trasformazioni, delle lobby corporative che badano solo a proteggere i privilegi acquisiti difendendo con le unghie e con i denti le barriere d’ingresso, una diffusa cultura anti-imprenditoriale e un’altrettanto diffusa concezione delle relazioni industriali come momento di conflitto e di contrapposizione piuttosto che di efficace dialogo sociale, un mercato del lavoro troppo rigido (con un codice di 3.500 pagine diventato incomprensibile). D’altronde non è certo un caso se persino i disperati che scappano dagli inferni africani e mediorientali vogliono andarsene in Germania, in Gran Bretagna, in Svezia e non certo (non più) in Francia.

Basta leggere le schede di accompagnamento della pur timida legge di liberalizzazione voluta dal giovane e brillante ministro dell’Economia (ed ex banchiere d’affari) Emmanuel Macron – il quale parla non a caso di «una legge moderna, contro le corporazioni e per chi non fa parte del sistema» - per farsi un’idea della situazione. Per esempio sui tempi delle cause di lavoro (quelli medi per il primo giudizio sono ormai di 15 mesi) e sulle indennità (il tentativo di fissare dei tetti è per ora fallito). Sui collegamenti interregionali via pullman, sostanzialmente vietati ai privati per difendere il costoso sistema di trasporti (ferroviario e stradale) finanziato dagli enti locali. O sull’apertura domenicale e serale dei negozi, sostanzialmente impossibile salvo alcune deroghe ed eccezioni, con il risultato che pur essendo al primo posto delle destinazioni turistiche internazionali, la Francia è in nona posizione per spesa pubblica pro capite dei visitatori (per non parlare della concorrenza dell’e-commerce, basti pensare che nel solo week end Amazon realizza il 25% delle proprie vendite).

La legge Macron ha finalmente aperto alla concorrenza il settore del trasporto passeggeri su strada (le stime parlano di 10-15mila nuovi posti di lavoro), mentre la battaglia sulle aperture domenicali e serali è ancora da vincere, almeno a Parigi: seppure vi sia la prospettiva di 10-15mila assunzioni, il sindaco Anne Hidalgo (sinistra socialista) e i sindacati di categoria si oppongono. E senza un accordo con i sindacati le saracinesche dei vari Lafayette, Printemps, Bon Marché, Zara o Apple restano abbassate.

Oppure basta scorrere la cronaca. A febbraio, sulla base di un decreto prefettizio valido solo per il dipartimento delle Landes, l’ispettorato del lavoro ha vietato al panettiere Stéphane Cazenave di tenere aperta sette giorni su sette la sua fiorente attività a Saint-Paul-les-Dax (cittadina di 13mila abitanti nell’Aquitania). La brillante conseguenza? 250mila euro di fatturato in meno all’anno e due licenziamenti (sui 22 addetti dell’impresa).

Per non parlare del drammatico bilancio di quella follia del passaggio alle 35 ore (pagate 39) decisa da un altro Governo socialista all’inizio del millennio. Proprio quando i tedeschi facevano le riforme e quando, dice ora Macron, avrebbe dovuto farle anche la Francia, che ha quindi accumulato un ritardo di 15 anni. Le 35 ore hanno fatto innumerevoli danni di vario genere: sono costate e continuano a costare moltissimo allo Stato (circa 12 miliardi all’anno di defiscalizzazione a favore delle imprese, in cambio di 350mila posti creati una sola volta); si sono comunque tradotte in un incremento del costo del lavoro (l’orario effettivo medio è di circa 39 ore, quattro delle quali quindi di straordinario, pagato dal 10% al 25% in più); hanno avuto un impatto indiretto sullo Smic, il salario minimo, aumentato più di quanto gli incrementi di produttività avrebbero giustificato; hanno abituato la gente a lavorare meno (i giorni di riposo si traducono in un orario annuo inferiore di 170 ore a quello tedesco).

Si potrebbe proseguire con il tema delle soglie, cioè dell’incredibile bagaglio di vincoli, di oneri e di complessità che scattano via via che l’impresa si ingrandisce. In particolare quando supera i 10 e i 50 addetti. Per ora il Governo ha cercato di mettere una pezza con il congelamento delle soglie al di sotto dei 50 dipendenti, ma si tratta di un provvedimento a tempo (3 anni) che non convince nessuno.

Non c’è quindi da stupirsi se le imprese francesi rimangono piccole (26 a 16 sotto i 10 addetti rispetto alla Germania e 15 a 20 al di sopra dei 50 addetti). E se gli imprenditori francesi ci pensano trenta volte prima di firmare un contratto a tempo indeterminato (in Europa solo Olanda, Grecia ed Estonia hanno un tasso inferiore di trasformazione dei contratti a tempo determinato in fissi).

Che la priorità sia allora quella di mettere mano al mercato (e al codice) del lavoro, per adattarlo alle esigenze di un’economia moderna, lo dicono ormai tutti: gli economisti, l’Ocse, l'Unione europea, la Banca di Francia. E apparentemente qualcosa si sta muovendo. Vanno in questo senso i rapporti presentati nei giorni scorsi da due think tank, una più liberale (era scontato) e una vicina all’anima riformista del partito socialista (meno scontato). Ma soprattutto quello commissionato dal premier Manuel Valls a un gruppo di lavoro di cui ha fatto parte anche l’italiano Tiziano Treu. Il documento dice chiaramente che bisogna mettere mano al codice per semplificarlo (opera di lunga lena, quattro anni) e nel breve dare molto più spazio alla contrattazione di settore e ancor più di azienda, concedendo a quei livelli ampi margini di flessibilità su condizioni di lavoro, orari e retribuzioni.

Musica per le orecchie di chi spera di iniziare finalmente a cambiare il Paese. Ma in vista di una legge che dovrebbe vedere la luce nella primavera dell’anno prossimo, al termine del solito rito negoziale, il presidente Hollande («Le 35 ore non si toccano») e lo stesso Valls («Norme più flessibili però non meno protettrici») hanno già messo le mani avanti, facendo temere l’ennesimo topolino partorito dalla montagna. Se così fosse sarebbe un’altra occasione perduta di dare alle imprese l’iniezione di fiducia di cui hanno bisogno per far ripartire investimenti e assunzioni .

© Riproduzione riservata