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Qualche cosa di nuovo dal fronte orientale

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analisi

Qualche cosa di nuovo dal fronte orientale

Qualche cosa di nuovo dal fronte orientale: le notizie che arrivano dalla Siria e dall’Iraq non permettono altri rinvii per la tenuta del sistema occidentale. Con un impercettibile ritardo di oltre quattro anni, dopo 250mila morti e oltre 4 milioni di profughi, gli Usa hanno deciso che si può trattare con la Russia, e quindi anche con l’Iran che condivide posizioni vicine a quelle di Mosca: questo non significa la consegna della testa di Bashar Assad.

Significa combattere un nemico comune, il Califfato, e tracciare una road map per una transizione possibile, come era già stato fatto dall’Onu tre anni fa.

Si tratta di una mossa obbligata: la tragedia siriana, entrata nella casa europea con centinaia di migliaia di profughi, si è trasformata in un una crisi che rischia di travolgere l’Unione e la stessa Nato, con la Turchia di Erdogan, controverso bastione dell’Alleanza, sotto pressione e impegnata, sia pure in maniera diversa, in due conflitti simultanei. È in gioco anche la democrazia turca. Con uno stato d’emergenza intermittente nell’Anatolia del Sud Est per la guerra al Pkk, i territori curdi sono sull’orlo di un conflitto civile e la regolarità delle elezioni anticipate di novembre appare ancora dubbia.

La superpotenza americana è alle strette. Non solo sta crollando la Siria ma anche l’Iraq è vicino al collasso. Le forze irachene sostenute dagli Stati Uniti non riescono a riconquistare un metro al Califfato che oltre a Mosul si è impossessato di Ramadi, Falluja e sta estendendo il controllo a tutta la provincia sunnita di Al Anbar: volendo potrebbe puntare su Baghdad. I bombardamenti aerei non bastano più a fermare lo Stato Islamico e l’insuccesso delle operazioni militari rischia di intaccare l’immagine degli Stati Uniti che nel 2003 invasero l’Iraq con l’ambizioso obiettivo, mai neppure avvicinato, di “rifare la mappa del Medio Oriente”.

Se continua così gli Usa potrebbero essere costretti a ricorrere ai cosiddetti “boots on the ground”, a truppe di terra, perché i bombardamenti non bastano a sconfiggere l’Isis. Lo stesso premier Haider Abadi per la sua sopravvivenza conta sulle milizie sciite e dei Pasdaran iraniani, certo non su un esercito iracheno liquefatto da un pezzo.

Ma non è esatto affermare che l’Occidente si stia buttando nella braccia di Putin. Anche Mosca è in crisi finanziaria e non può sopportare il peso di una guerra in Siria, neppure con il sostegno dell’Iran che a sua volta, dopo l’accordo sul nucleare, punta a risollevare la sua economia mentre nella cerchia del presidente Hassan Rohani l’impegno in Siria e in Iraq è visto sempre di più come un fardello da alleggerire il più possibile senza compromettere le strategie regionali di Teheran. Anzi la Russia, insieme all’Iran sciita, ha intuito che Assad non può vincere la guerra e serve un compromesso per la transizione. Questo era il senso dell’offerta del Cremlino di costituire un coalizione internazionale contro lo Stato Islamico.

Il fattore tempo è fondamentale. Tre anni fa, secondo l’ex presidente finlandese e negoziatore Martti Ahtisaari, l’Occidente respinse la proposta russa di risolvere la crisi in Siria con le dimissioni di Assad ma conservando al potere le strutture militari del regime. Tutti allora pensavano che sarebbe stato sbalzato in poche settimane. Oggi per avere un accordo bisogna rispondere a interrogativi brucianti: abbattere Assad o usare il suo esercito contro il Califfato? E come affrontare la questione curda e le paure della Turchia? Come bilanciare l’influenza dell’Iran e le spropositate ambizioni delle monarchie sunnite? Dal dialogo tra Mosca e Washington può arrivare qualche risposta: prima che il Califfato e i jihadisti diventino dominanti e la disperazione spinga altri milioni di siriani alla fuga.

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