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Rifugiati e lavoro, per la Germania una sfida in salita

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Rifugiati e lavoro, per la Germania una sfida in salita

MONACO - Peter Barth sa cosa significa perdere tutto sotto le bombe, lasciare per sempre la propria casa e vivere in una baracca. «Ecco, lì siamo rimasti sei anni, dal 1949 al 1954» dice indicando una fila di container rossi. «Davanti c'erano piccoli orti ma mentre le altre famiglie coltivavano patate, mia madre cresceva fiori» ricorda sorridendo. Barth, 68 anni, manager in pensione, è stato uno dei milioni di sfollati tedeschi dopo la guerra. Dalle macerie di Berlino la sua famiglia si trasferì in questo campo vicino a Dachau, nella cintura di Monaco di Baviera. Ha frequentato la scuola in un edificio all'interno del lager che è poco distante.

Adesso nelle baracche vivono 70 rifugiati e sono al completo. I nuovi arrivati verranno smistati negli altri 14 centri della regione ma la capienza è al limite. «Ogni giorno giungono trenta richieste di sistemazione» spiega Barth che da quando i numeri si sono ingrossati, già due anni fa, dedica il suo tempo ai profughi, da volontario, nel vicino comune di Hebertshausen, sobborgo a cinque chilometri dall'ex campo per sfollati di Dachau. Aiuta i rifugiati nelle pratiche burocratiche, organizza corsi di tedesco con insegnanti pure volontari e, soprattutto, cerca di trovare un impiego ai profughi.

Nell'ospedale dismesso sulla Von Mandl Strasse del paesino di duemila anime sono state accolte sessanta persone. Afghani, siriani, ma anche senegalesi e nigeriani. Babacar, 23 anni, è approdato nella struttura dalla Nigeria e da qualche giorno ha iniziato l'apprendistato in un'officina meccanica. «Imparano presto e sono motivati» dice il titolare Edwin Müller. Anche Albert, 21 anni, senegalese, è passato dalla sua officina dove ha finito la formazione. Ma il suo futuro è stato catapultato nell'incertezza da quando a marzo il ministero bavarese dell'Interno ha aggiunto Senegal e Ghana alla lista dei Paesi “sicuri” vietando il lavoro ai richiedenti asilo provenienti da lì. «La maggior parte dei rifugiati è qui per motivi economici - spiega Barth - molti, tuttavia, a due anni dall'arrivo non hanno ancora avuto il colloquio iniziale».

Richiedenti asilo e migranti economici convivono fianco a fianco, uniti dalla cultura del “Willkommen” voluta dalla cancelliera Angela Merkel che ha messo in moto un processo di trasformazione in grado di cambiare volto al Paese più di quanto abbia fatto la riunificazione tra Est e Ovest. A patto che i governi, centrale e locali, usino le risorse finanziarie necessarie e quella dose di «flessibilità», invocata dalla stessa cancelliera, per superare gli ostacoli burocratici. Il nuovo corso del resto obbedisce a ragioni economiche oltre che morali. La Germania ha bisogno di migranti perché l'inesorabile calo della popolazione sta erodendo la forza lavoro e mette a rischio la sostenibilità delle pensioni. Senza immigrazione nel 2060 potrebbero esserci 20 milioni di abitanti in meno e la forza lavoro già nel 2035 potrebbe scendere dai 50 milioni attuali a 40.

Se l'afflusso enorme di rifugiati nel Paese - 200mila nei soli primi sette mesi dell'anno, un milione circa a fine 2015, più i 500mila annui dal 2016 in poi - sarà o meno «una storia di successo» dipende in primo luogo da un elemento, sostiene Andreas Rees, capo economista per la Germania a UniCredit Research: «Dal mercato del lavoro e dalla sua capacità di integrazione». Un assorbimento senza problemi «deve avvenire in un periodo di tempo ragionevole».

Ciò che per il momento non sta accadendo. Remano contro la mancanza di insegnanti di lingua e di professori nelle scuole e i tempi dilatati per l'esame delle richieste di asilo. L'onda d'urto è stata forte e ha preso in contropiede persino la Germania. Il governo federale ha stimato in 25mila gli insegnanti aggiuntivi che servirebbero, fin d'ora, per i 300mila profughi in età scolare entrati nel Paese. I cinque mesi medi una volta necessari per rispondere alle richieste di asilo non vengono più rispettati e in Baviera, che riceve la seconda quota di rifugiati dopo il Nordreno Vestfalia, tra appelli e ricorsi i procedimenti durano anni. Il 40% delle domande viene poi respinto.

Come fanno imprenditori e autorità a investire nella formazione dei futuri cittadini e lavoratori tedeschi se rischiano di vederli in seguito espulsi? Perciò tra le priorità del governo Merkel c'è l'istituzione di nuove sedi del Bamf, l'ufficio federale per le migrazioni e i rifugiati, competente per l'asilo. Per questo tre giorni fa il suo capo, Manfred Schmidt, è stato costretto alle dimissioni. Significativa, per la direzione che Berlino vuole imprimere agli eventi, è la nomina del suo successore: Frank-Jürgen Weise, responsabile dell'Agenzia federale del lavoro, che ricoprirà insieme i due incarichi.

L'integrazione, spiegano gli esperti, è una corsa contro il tempo. «La motivazione è molto alta all'inizio ma poi viene meno» riassume Astrid Blaschke, del Dipartimento rifugiati presso la municipalità di Monaco, e quindi può avere un senso offrire progetti anche alle migliaia di persone che non hanno la possibilità di restare. Il budget dell'ufficio per i corsi di tedesco e la formazione professionale “duale” è passato dagli 1,2 milioni del 2014 ai quasi due milioni del 2015. I corsi, però, ammette Blaschke, non sono sufficienti perché i rifugiati vengono distribuiti dal capoluogo ai comuni della provincia che hanno meno fondi e non sono in grado di provvedere adeguatamente. Proprio mentre l'interesse delle grandi aziende per i profughi è esploso e i big dell'economia tedesca, da Bmw a Deutsche Bahn, dichiarano di voler assumere rifugiati.

Da qualche anno il ministro dell'Istruzione bavarese ha creato un apposito programma, il progetto Fiba, a cui hanno partecipato 28 network per migranti, con classi destinate a profughi da 15 a 21 anni. L'obiettivo è preparare i giovani al sistema duale vero e proprio e all'apprendistato. Un modello che nella capitale federale viene guardato con interesse e prevede due strutture, una per le persone con status sicuro, l'altra per i migranti sospesi nel “limbo”. «La quota di integrazione nel mercato del lavoro dei primi - pari al 90,7%, a fronte del 56% nel secondo gruppo - mostra che tipo di potenziale abbiano i rifugiati» commenta Blaschke, coordinatrice del progetto. «Alle persone che sono motivate e per la loro preparazione pregressa possono affrontare compiti difficili dobbiamo dare la possibilità di sviluppare al meglio il potenziale perché le ricerche dicono che in futuro nel mercato del lavoro ci sarà sempre meno spazio per le qualifiche basse. Dobbiamo investire ora in una integrazione sostenibile». Così la Germania, come spesso accade, guarda avanti e inizia ad affrontare la sfida forse più grande dal Dopoguerra.

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