L’Italia, dice Matteo Renzi a New York, non parteciperà ai bombardamenti contro l’Isis in Siria perché attualmente un intervento militare è privo di orizzonte politico.
Non bisogna ripetere, sostiene, gli errori commessi in Libia. Ragionamento teoricamente corretto ma superato dai fatti: Vladimir Putin ha spostato così in alto l’asticella della tragedia siriana da rendere irrilevante non solo la riflessione del presidente del Consiglio, ma anche i bombardamenti francesi iniziati due giorni fa e quelli di americani e inglesi in corso da molto più tempo.
Il paragone con la Libia non è calzante. Allora, nel marzo 2011, francesi e inglesi forzarono la mano agli americani - molto più che agli italiani - bombardando per far cadere la dittatura al potere. In Siria i suoi bombardieri e gli elicotteri da combattimento il presidente russo li alza in volo da aeroporti sul suolo siriano, rinforza una vecchia base navale sul Mediterraneo e fa marciare su Latakia la sua fanteria per difendere la dittatura al potere.
È una differenza di non poco conto che rende obsolete tutte le riflessioni e i tentennamenti euro-americani sul cosa fare in Siria. Per noi quel Paese è diventato una gigantesca esitazione amletica. È evidente che l’Isis sia un mostro al quale bisogna tagliare la testa al più presto: il New York Times scrive che nel 2015 più di 30mila giovani musulmani di tutto il mondo sono andati ad arruolarsi in Siria. Ma se si elimina l’Isis, si aiuta Bashar Assad a restare al potere: lui che è uno dei responsabili della guerra civile. Il regime è laico (nel mondo arabo la definizione è da usare con cautela), non mostra sul web i cento modi più sadici per uccidere l’avversario. Ma massacra la sua gente non meno del califfato. I siriani che vediamo arrivare sulle nostre coste e nelle stazioni ferroviarie dell’Est Europa fuggono dai massacratori dell’Isis quanto dal regime di Assad, una specie di “macellaio buono” di questa storia.
Dubbi di questa natura Putin non se ne pone. Il suo è realismo: c’è pure dell’altro ma è innegabile che sia un realismo quasi kissingeriano. Negli anni ’70 anche alla Cia sapevano che i dittatori dell’America Latina erano dei poco di buono ma erano i loro poco di buono: la versione originale di Langley era molto più colorita. Ora in Siria è dei russi. È la teoria del male minore, in questo caso il regime di Damasco, che assume anche le sembianze dell’utile strumento per far rientrare da protagonista la Russia nel grande gioco del Medio Oriente dal quale era stata esclusa durante il rapido disfacimento dell’Urss.
Probabilmente Vladimir Vladimirovich è anche un genio politico. Ma non è difficile riuscire a esserlo se non si devono fare i conti con un’opinione pubblica. La cautela di Renzi dipende anche dalla certezza che un maggiore impegno italiano in Siria dividerebbe il Paese. Se vi capitasse di leggere La Padania, Il Giornale e Il Manifesto, scoprireste che di Putin destre e comunisti scrivono con lo stesso entusiasmo. Ma anche questa curiosa alleanza si frantumerebbe all’idea di mandare gli alpini a combattere l’Isis. Così Barack Obama con un’America - eccetto i numerosi, muscolosi e superficiali candidati alle primarie repubblicane - che non dimentica e non vuole ripetere l’errore iracheno.
In Russia un decreto presidenziale ha trasformato in un segreto di Stato la morte in missione dei militari. E l’ansia di tornare a essere un impero questa volta senza zar né ideologia, ha portato a una revisione così radicale della storia da rivalutare la soppressione della Primavera di Praga del 1968 che nel nuovo immaginario russo fu un complotto americano come le primavere arabe.
Ma se è Obama ad aprire all’Iran, a finanziare la difesa dell’Iraq, a rifiutare le armi decisive ai ribelli in Siria per impedire che cadano nelle mani dell’Isis; e poi è Putin a firmare un accordo di collaborazione contro l’Isis con iraniani, iracheni e siriani, significa che il sistema decisionale americano è paralizzato da veti, alleanze e un politicamente corretto sempre più insostenibili; e quello russo alla fine è un sistema più scorretto e cinico ma agile ed efficace. Eppure l’esistenza dell’Isis non è solo una minaccia: è anche un’opportunità. Ammettendo sul podio dell’Assemblea Generale Onu, che «i pericoli di oggi ci stanno spingendo verso un mondo più oscuro e disordinato», Obama ha l’obbligo di trasformare l’incontro con Putin a New York nel cantiere di un nuovo ordine.
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