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La Grande Russia riparte dal Medio Oriente

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l’analisi

La Grande Russia riparte dal Medio Oriente

Con una casualità cui non crede nessuno, immediatamente dopo l’inizio dei bombardamenti russi sulla Siria si riapre l’agenda ucraina. O meglio, è più giusto il contrario. Il vertice parigino, seguito di quello a Minsk, era previsto da tempo: sono i bombardamenti a essere iniziati con diplomatica coincidenza tre giorni prima della ripresa della trattativa fra europei, russi e ucraini.

Ha l’aria di una concomitanza cercata. Davanti ad Angela Merkel, François Hollande e Petro Poroshenko, Vladimir Putin non si presenta più come il presidente russo preoccupato per i suoi confini occidentali ma come un leader globale con cose da dire e da fare in tanti scacchieri, contemporaneamente. Ieri perfino le operazioni militari russe sembrano essere diventate un po’ più precise, incominciando finalmente a colpire l’Isis e non solo gli oppositori più moderati al regime degli Assad.

Secondo una lettura dell’intervento russo nel Levante, l’obiettivo prioritario di Putin è l’Ucraina, non la Siria; non la sopravvivenza di Bashar Assad ma il futuro dei russi nel Donbass; impedire che l’Ucraina entri nell’Unione Europea e nella Nato, trovando invece un modo per finlandizzarla, congelandone cioè il futuro geopolitico per qualche anno; bloccare il dispiegamento del sistema missilistico anti-missile, uno scudo alle porte della Russia; riprendere la trattativa sulla riduzione degli arsenali nucleari o ricominciare, al contrario, una pericolosa corsa al riarmo.

È così: l’intervento in Siria è un modo efficace per sponsorizzare qualcosa che conta di più, l’Ucraina. Tuttavia il disegno di Vladimir Putin è molto più vasto. L’Ucraina e tutto ciò che ne consegue, è fondamentale ma non fine a se stessa. Insieme al nuovo interventismo mediorientale, è il balzo in avanti per tornare al più presto a essere l’altra grande potenza globale insieme agli Stati Uniti, in ogni regione del mondo: una nuova Unione Sovietica senza gli orpelli ideologici del comunismo e i sensi di colpa della perestroika. È il segno di un contrappasso se nel 1990 il primo segno di arretramento della potenza sovietica si sia manifestato in Medio Oriente, quando Gorbaciov non si oppose alla liberazione del Kuwait e si escluse dalla coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti; e oggi la Velikaya Rossia, la Grande Russia ambiziosa ricominci dal Medio Oriente.

Si può chiamare grande disegno. Ma anche questo trionfale dinamismo ha qualche controindicazione. Le incertezze e i ripiegamenti di Barack Obama hanno aperto una prateria alle ambizioni di Putin. Ma fra un anno ci sarà un altro presidente a Washington e non è detto che la sua politica estera sia di basso profilo come quella del predecessore. La seconda avvertenza sono le paludi del Grande Medioriente nel quale sono cadute tutte le potenze che hanno creduto di avere una soluzione. Russia compresa, uscita a pezzi dall’Afghanistan meno di una generazione fa. Le marce trionfali nella regione, come sembra essere anche quella di Putin, sono solo un inizio. Non segnano mai la fine di un’avventura.

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