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È ancora il Qe la medicina giusta per l’economia malata?

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È ancora il Qe la medicina giusta per l’economia malata?

Funziona, o no? Sono ormai anni che la politica monetaria del mondo è dominata dai quantitative easing, ma gli effetti sono stati finora limitati. Ovunque, anche nei paesi in cui gli acquisti di titoli sono terminati, e la liquidità è rimasta in circolo, l’inflazione resta più bassa di quanto le banche centrali desiderino, e anche la ripresa resta sotto tono.

I numeri sono impietosi: con o senza un Qe, in base ai dati Ocse non c’è un paese avanzato con un’inflazione superiore al 2%, a parte la piccola Islanda; e in molte economie in transizione o emergenti la situazione non è granché migliore. Alcune aree - Spagna, Grecia, Finlandia - vedono addirittura calare i prezzi. L’andamento del Pil nominale - crescita reale più inflazione - è quindi inferiore a quella registrata prima della crisi e non porta il necessario sollievo ai debitori, i governi innanzitutto.

I quattro maggiori Stati ad aver realizzato un quantitative easing non si distinguono particolarmente dagli altri: in Giappone, dove è stata iniettata liquidità pari a oltre il 60% del Pil, l’inflazione è all0 0,2%, come negli Stati Uniti - dove la Fed ha acquistato titoli per poco più del 25% del Pil. In Gran Bretagna, dove è stata creata moneta per il 20% del Pil, i prezzi sono fermi, mentre in Eurolandia calano dello 0,1% malgrado la Bce abbia già acquistato titoli per oltre il 10% del Pil della regione.

I prezzi freddi sono in parte legati alla flessione del petrolio. Non è necessariamente una cattiva cosa. Se non ci fosse un effetto frenante sulle aspettative di inflazione - che sono più importanti dell’inflazione del passato, sia pure recente - si potrebbe parlare di una semplice variazione dei prezzi relativi (i prezzi degli altri beni salgono rispetto alla benzina); e se non ci fosse anche - almeno in Eurolandia - un’elevata disoccupazione l’effetto sarebbe inequivocabilmente positivo: le famiglie con un reddito stabile hanno più risorse da destinare invece che ai carburanti, necessari, ad altri beni.

Anche tenendo conto del fattore petrolio, però, l’inflazione resta bassa: escludendo la sola energia ad agosto era, per esempio, pari all’1% in Eurolandia, allo 0,6% in Gran Bretagna, È vero che la politica monetaria impiega molto tempo per avere un impatto sui prezzi - due anni in circostanze normali, di più oggi dopo la Grande recessione - ma negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, i primi a lanciarsi nel Qe, almeno qualche surriscaldamento dell’economia avrebbe dovuto manifestarsi.

I motivi di questa persistenza della bassa inflazione possono essere diversi.

Può essere cambiata la struttura dell’economia: per anni si è parlato di deflazione importata dalla Cina, che vendeva e vende prodotti a prezzi più bassi sia perché lo yuan è tenuto artificialmente debole, sia perché il costo del lavoro è inferiore. Alcuni economisti credono che una parte almeno dell’attuale disinflazione sia legata agli effetti della globalizzazione.

Altri economisti, e tra questi si distingue la scuola dei market monetarists, credono che - semplicemente - i quantitative easing siano stati insufficienti e occorra fare molto di più. Sarebbero proprio i dati sull’inflazione e sul Pil nominale a dimostrarlo: l’aumento dell’offerta di moneta, argomentano, non può che influire su crescita e prezzi, attraverso le aspettative prima ancora che in concreto. Le loro analisi puntano quindi a mostrare gli effetti frenanti delle esitazioni e dei continui, innegabili, stop and go delle banche centrali.

Uno dei problemi è che la politica monetaria ha effetto quasi immediato sui mercati finanziari e, solo indirettamente, sull’economia reale. Il Quantitative easing influisce subito sui cambi - l’andamento dell’euro/dollaro, trascinato verso il basso dal Qe della Bce e verso l’alto dai rinvii del rialzo del tassi Fed sono evidenti - ma nessuna banca centrale è nel pieno controllo della propria valuta: tutto dipende anche dalle politiche monetarie dei partner. Se tutti “svalutano”, anche se indirettamente, il risultato non è soddisfacente per nessuno.

L’effetto sul credito è decisamente meno intenso: acquistando titoli di Stato, le autorità monetarie “liberano spazio” nei bilanci delle aziende di credito e abbassano i rendimenti, incentivando quindi le banche a impegnarsi su altri fronti: facendo prestiti alle imprese per esempio. È evidente che molti altri fattori entrano in gioco in questo meccanismo, e i risultati possono essere limitati: l’elicottero che distribuisce moneta dall’alto, a caso e a tutti, evocato dal Milton Friedman, monetarista rigoroso, e poi da Ben Bernanke per contrastare la deflazione, è molto diverso.

In campo politico si è affacciata l’idea del Quantitative easing «per il popolo»: l’ultimo a parlarne è stato Jeremy Corbyn, leader dei laburisti britannici, secondo il quale la Bank of England dovrebbe investire direttamente in «immobili, energia, trasporti e progetti digitali». Boutade elettorali? In parte sì. Qualche commentatore ha però ricordato che la Bank of England ha studiato e proposto qualcosa di simile a quanto proposto da Corbyn - in realtà dall’economista Richard Murphy - per sostenere direttamente le piccole e medie imprese (Pmi). La stessa Bce ha avviato un programma di iniezione di liquidità alle banche che investano in Pmi che ha superato i 380 miliardi.

Ha molto stupito, in ogni caso, che il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi, durante l’ultima audizione al Parlamento europeo, non abbia respinto come mera retorica politica l’idea di un Qe “diverso” o “per il popolo” - presentata un po’ confusamente dal deputato laburista olandese Paul Tang - pur isolandola tra le cose futuribili, anche per le difficoltà legali che il Trattato della Ue potrebbe opporre. «Per centinaia di anni - ha detto Draghi - le banche centrali hanno iniettato moneta nell’economia attraverso le banche e/o i mercati. Questo sappiamo. Certamente prenderemo in considerazione queste idee che si stanno discutendo: le si sta discutendo ovunque e la Bce prende parte a queste discussioni in ambito accademico e in altre circostanze».

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