Non sempre vincono la geopolitica, gli scontri settari e l'integralismo, qualche volta anche i popoli. E da soli. Quello assegnato a quattro organizzazioni della società civile è un Nobel per la pace intelligente e scomodo, a Oriente come a Occidente. L'11 gennaio del 2011 a Kasserine, 300 chilometri da Tunisi, non c'era nessuna aviazione a bombardare i miliziani del dittatore Ben Alì.
La città era avvolta nell'odore acre della battaglia, tra le fiamme dei pneumatici, attraversata da improvvisati cortei funebri con le bare dei rivoltosi uccisi dagli sniper del regime. Sfidando le pallottole, gli avvocati in toga nera e fiocco bianco uscirono in corteo dal tribunale, a passo lento e solenne mentre a noi tremavano le gambe. Apparivano, nella polvere della battaglia, i fantasmi della libertà. Ci venne incontro l'avvocatessa Monia Bouali con una lista di dozzine di vittime perché il mondo fuori sapesse. Era un tramonto amaro sui resti romani, ai piedi del Jebel Chambi, che da quella prospettiva desolante apparivano quasi irreali, uno sfondo di cartapesta.
Ma era qui, nella Tunisia profonda, che un popolo cominciava, senza nessuno aiuto esterno, la sua lotta. Avvocati, sindacalisti, imprenditori e militanti dei diritti umani liquidarono il regime: fu la società civile a cacciare Ben Alì senza bisogno di ricorrere alle armi. La Tunisia è un esempio tra i drammi usciti dalla primavera araba: ogni volta che hanno provato ad attaccare la democrazia i tunisini sono scesi in piazza a difenderla. Ecco perché ha resistito agli omicidi dei politici, alle violenze dei salafiti, agli attentati del Califfato, approvando una Costituzione innovativa in cui si riconoscono partiti laici e musulmani.
Certo la Tunisia è un'eccezione: è il primo Paese arabo in assoluto ad acquisire la qualifica di “Libero” secondo il rapporto 2015 di Freedom House. Quanto sono distanti in questa classifica la Siria, la Palestina, l'Iraq, lo Yemen, la confinante Libia, che appena raggiunto un accordo vede già le fazioni pronte a sbranarsi?
L'Intifada dei coltelli in Cisgiordania si allarga a Gaza, cinque palestinesi sono stati uccisi alla frontiera, mentre il leader di Hamas Ismail Haniyeh lancia un appello per liberare di Gerusalemme. La soluzione di due stati per due popoli, con un negoziato morto e sepolto, è soltanto un'illusione, una formula vuota, ripetuta stancamente dalla diplomazia internazionale, dove si infila la disperazione araba etichettata come Intifada per un riflesso condizionato dei media. E mentre la Palestina scompare anche nei sogni, la Siria, dopo l'intervento militare della Russia, sale il primo piano non per occuparsi della sorte del suo popolo ma per trasformarsi in una sorta di arena del nuovo scontro tra Est e Ovest. Anche l'uccisione ad Aleppo da parte del Califfato di un importante generale iraniano dei Pasdaran, Hossein Hamadani, rischia di passare in secondo piano, e ancora di più quella del fotoreporter turco Mohammed Laila, vittima ieri insieme da altre 19 persone di un attentato dell'Isis.
Eppure anche la Tunisia del Nobel ha qualche cosa di scomodo da ricordarci. Nel 2011 il G8 decise a Deauville un piano “Marshall” di 20 miliardi di dollari per sostenere la Rivoluzione dei Gelsomini. E' circa il 6% dei soldi, 155 miliardi di euro, dati dalla Ue alla Grecia. Ma a Tunisi non hanno visto quasi nulla: le nostre promesse sembrano quelle eclatanti e bugiarde di Ben Alì.
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