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mali di francia

Viaggio a Smartville, dove i dipendenti vogliono lavorare più di 35 ore ma il sindacato dice no

Gli occhi della Francia politica, imprenditoriale e sindacale saranno oggi puntati su un paesino di 2.800 abitanti della Mosella a otto chilometri dalla frontiera con la Germania: Hambach. Perché nel suo territorio c’è Smartville.

Smartville è il polo industriale inaugurato diciotto anni fa in pompa magna da Jacques Chirac e Helmut Kohl. E proprio oggi la direzione della società del gruppo tedesco Daimler presenterà ai sindacati la sua ultima proposta per ridurre i costi e garantire un futuro allo stabilimento che produce la due posti ForTwo: passare per tre anni a un orario settimanale di 39 ore pagate 37. Sarebbe una prima assoluta nel Paese delle 35 ore, una piccola rivoluzione.

Anche se il sindacato più importante dei quattro presenti nella fabbrica (la Cgt, con il 36%), alleato con la più piccola Cfdt (18%), ha già annunciato la propria opposizione e con tutta probabilità farà quindi saltare l’accordo. Gettando un’ombra di incertezza sul futuro degli 800 dipendenti dell'impianto. E dei 1.200 che lavorano nelle aziende di componentistica del polo.

La vicenda che arriva oggi all’epilogo si apre all’inizio dell’anno e si basa su una dura constatazione: le Smart a quattro posti (ForFour) realizzate nello stabilimento sloveno di Renault a Novo Mesto (nel quadro di una partnership concordata a fine 2010 il costruttore francese ha realizzato una piattaforma in grado di assemblare indifferentemente Twingo e Smart) hanno un costo di produzione inferiore di circa 600 euro a quelle della fabbrica di Hambach. L’impianto sloveno ha inoltre una capacità produttiva potenziale di 250mila vetture, sufficiente ad accogliere la ForTwo. E poiché nel 2018 Daimler dovrà decidere dove produrre il restyling della terza generazione della due posti, per evitare il rischio di una delocalizzazione bisogna assolutamente colmare una parte del gap di costi tra i due stabilimenti.

La direzione di Smartville presenta quindi ai sindacati un piano (Challenge 2020) che prevede interventi su fari fronti, tra cui quello del costo del lavoro (Pacte 2020). Si tratterebbe di passare per cinque anni a 39 ore settimanali ma pagate 37. Con un aumento mensile lordo di 120 euro e un bonus una tantum di mille euro. Prima di tornare alle 35 ore attuali (conservando l’aumento in busta paga). Per i dipendenti ci sarebbe un aumento del tempo di lavoro di circa il 12% e della retribuzione di circa il 6 per cento.

L’insieme di queste iniziative consentirebbe di recuperare metà del divario rispetto a Novo Mesto. Se Daimler decidesse di assegnare la produzione a Hambach il maggior costo annuo sarebbe cioè di 30 milioni (per circa 100mila vetture prodotte), uno sforzo che probabilmente varrebbe la pena di sostenere visti i costi immateriali legati a un eventuale abbandono del sito (sociali, politici, di immagine).

Inizia un lungo e difficile negoziato al termine del quale (a fine luglio) viene ipotizzata una gradualità nell’aumento dell’orario: un anno a 37 ore, tre a 39 e uno a 37, prima di tornare (nel 2021) alle 35 ore settimanali. Su questa ipotesi viene organizzato, l’11 settembre scorso, un referendum: vincono i sì, con il 56% dei votanti (93%). Ma con una forte diversità tra i lavoratori: quelli in produzione, circa la metà, lo bocciano al 61%; quelli non in produzione lo approvano al 74 per cento.

Nel frattempo succedono alcune cose a livello nazionale. Il ministro dell’Economia Emmanuel Macron critica le 35 ore e la mancanza di flessibilità sulla gestione degli orari, attirandosi le ire della sinistra e costringendo il presidente Hollande e il premier Valls a intervenire per assicurare che le 35 ore, un totem della sinistra, non saranno toccate. Mentre la Cgt, il sindacato social-comunista, elegge un nuovo segretario che pone addirittura l’obiettivo di scendere a 32 ore.

La questione dell’orario diventa di nuovo uno psicodramma politico, le posizioni si radicalizzano e la vicenda Smart assume un valore simbolico che travalica la situazione specifica dell’impianto di Hambach. Per cercare di salvare il salvabile, la direzione immagina un’ultima proposta, quella appunto che verrà presentata oggi: la possibilità cioè che siano i singoli dipendenti a decidere se aderire o meno alla richiesta aziendale. Se il loro numero complessivo sarà uguale o superiore al 56% del sondaggio di settembre si andrà avanti, in caso contrario tutto rimarrà come adesso. Incrociando le dita in vista del 2018.

Lo scenario più probabile è che i due sindacati “riformisti” Cftc e Cfe-Cgc (che hanno insieme il 46% dei voti) nei prossimi giorni decidano di firmare, rendendo l’intesa applicabile (serve almeno il 30%). Ma Cgt e Cfdt (che si è opposta fin dall’inizio, insieme hanno il 54%) esercitino entro gli otto giorni successivi il cosiddetto “diritto di opposizione” (serve almeno il 50%) e blocchino tutto.

Le posizioni sono d’altronde molto esplicite. «Per noi – dice Mario Mutzette della Cfe-Cgc – c’è una sola priorità: l’occupazione. Che questo accordo garantisce. È pazzesco che per ragioni politiche si sacrifichi il lavoro». «Si tratta di una proposta – dice la segretaria della Cgt Bernadette Hilpert – in cui a guadagnare è solo l’azienda, alla ricerca di maggiore redditività a vantaggio degli azionisti». Mentre il direttore delle risorse umane Philippe Steyer cerca di spiegare che «le 35 ore non c’entrano, l’obiettivo è solo quello di recuperare competitività e assicurare un futuro all’ultima fabbrica di vetture in questo segmento di utilitarie in Europa Occidentale».

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