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Oggi al voto una Turchia spaventata e divisa

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le implicazioni del voto

Oggi al voto una Turchia spaventata e divisa

  • –di Alberto Negri

Istanbul - C’era una volta il sogno di gloria neo-ottomana del “sultano” Erdogan: oltre al destino della Turchia, tenuta da anni nell’anticamera di Bruxelles, in queste elezioni c’è in gioco anche quello del Medio Oriente e dell’Europa. La Turchia, membro della Nato da oltre 60 anni, è un Paese chiave per tentare il compromesso sulla Siria.
Quel compromesso che la comunità internazionale ha cominciato a profilare al vertice di Vienna di venerdì, dopo il quale gli Stati Uniti hanno annunciato lo schieramento sul terreno di forze speciali.
Perché qui in Turchia è entrato in crisi profonda proprio il modello di democrazia musulmana che il presidente Tayyp Erdogan voleva proporre al mondo islamico e la sua politica estera e interna invece di contribuire a pacificare la regione l’hanno destabilizzata.
Corteggiata dall’Europa e dagli Stati Uniti per la sua posizione strategica, Ankara è motivo di preoccupazione anche per i suoi alleati occidentali che dopo le primavere arabe avevano presentato il “modello turco” come un esempio da seguire per la sua capacità di integrare Islam, democrazia e crescita economica. Svaniti gli ambiziosi progetti neo-ottomani, la Turchia rappresenta oggi un altro Paese “malato” del Levante.

La parabola di Erdogan è spiegata così da Ilter Turan, professore di Scienza della politica alla Bilgi University di Istanbul: «Il governo dell’Akp all’inizio ha perseguito una politica estera filo-occidentale. Poi la Turchia ha provato a giocare un ruolo da attore regionale puntando sul suo “soft power”, intensificando le relazioni economiche e diplomatiche con gli stati mediorientali.
La svolta si è avuta come le primavere arabe del 2011 quando Erdogan ha mirato all’obiettivo di prendere la leadership dei Fratelli Musulmani: si spiega così l’appoggio al presidente egiziano Mohammed Morsi e ai movimenti islamici in Tunisia e in Libia».
Ma Erdogan e l’allora ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu hanno fatto male i conti. «I due a un certo punto pensavano di essere alla guida dell’Egitto o della Siria», ha commentato con ironia l’ex presidente Abdullah Gul, uno dei fondatori del partito islamico Akp. In realtà Morsi è stato sbalzato dal potere, la Libia è sprofondata nel caos e in Tunisia il leader islamico Rashid Gannouchi ha dovuto scendere a un compromesso con i laici.

Ma soprattutto il fallimento è stata la Siria. Nel 2011 Davutoglu prevedeva che il presidente Bashar Assad sarebbe stato detronizzato in pochi mesi e con Erdogan ha dato il via libera all’afflusso dei foreign fighters: il confine turco è diventato “l’autostrada dei jihadisti” diretti dall’altra parte della frontiera per abbattere il regime alauita di Damasco. Non solo Assad non è caduto ma l’intervento militare della Russia ha cambiato completamente le carte della sanguinosa partita siriana.
Dopo avere appoggiato i jihadisti che si sono arruolati sotto la bandiera nera del Califfato, Erdogan è stato costretto a fare due accordi per recuperare credibilità internazionale. Il primo con gli americani per concedere la base di Incirlik destinata ai raid contro l’Isil, il secondo con l’Unione europea per contenere l’ondata dei profughi da Levante. Ma questo non è bastato. Erdogan aveva sempre insistito che qualunque soluzione politica in Siria dovesse comprendere l’immediata uscita di scena di Assad e ha dovuto fare marcia indietro ammettendo che «una transizione è possibile anche con l’attuale presidente». Anche qui ha dovuto cedere alla realpolitik: alla conferenza sulla Siria di Vienna gli Stati Uniti e la Russia hanno agito di concerto per attutire le grandi divergenze tra Iran e Arabia Saudita ma anche per far digerire agli attori regionali come Riad e Ankara che Assad per ora resta in sella.

Il problema più bruciante però è la questione curda. Erdogan, dopo le elezioni del 7 giugno ha affossato il processo di pace con i curdi della Turchia, che lui stesso aveva iniziato, bombardando le postazioni della guerriglia del Pkk e ha preso di mira anche le basi dei curdi siriani del Rojava.
La saldatura dei due Kurdistan è l’incubo geopolitico di Ankara. Ma i curdi siriani sono ritenuti i più strenui combattenti contro l’Isis: gli Stati Uniti li hanno riforniti di armi e vogliono portarli al tavolo del negoziato sulla transizione siriana. È vero che per ammorbidire Ankara, membro storico della Nato, gli Usa forniranno “bombe intelligenti” alla Turchia da usare contro il Pkk.
Ma come afferma Cengiz Candar, giornalista e consigliere di vari presidenti, Erdogan è ripiombato nell’inconcludente retorica anti-curda degli Anni 90 e ora rischia di regalare nuovi asset strategici alla Russia e all’Iran facendo scivolare la Turchia nel caos.

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