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Una bomba a bordo, perché è questa la sola pista credibile

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le indagini

Una bomba a bordo, perché è questa la sola pista credibile

La pista dell’attentato terroristico emerge nell’inchiesta sull’Airbus 321 della compagnia aerea russa Metrojet precipitato sabato nel Sinai dopo il decollo da Sharm el-Sheikh. La conferma che il velivolo è esploso in volo sembra poco compatibile con un guasto tecnico, che avrebbe lasciato il tempo all’equipaggio di lanciare un Sos.

L’esame delle scatole nere potrebbe presto chiarire l’accaduto ma, andando per esclusione, appaiono poco fondate anche le ipotesi del lancio di un missile terra-aria a opera dei miliziani dello Stato Islamico nella provincia del Sinai, gruppo ben armato e distintosi in azioni spettacolari come l’attacco con missili anticarro a una motovedetta egiziana.

I miliziani dispongono di missili antiaerei sofisticati come gli SA-24 (trafficati dalla Libia dopo la caduta di Gheddafi) ma si tratta di armi portatili che colpiscono i velivoli dopo aver seguito il calore emesso dai motori a un’altezza massima di 5mila metri. Troppo poco per raggiungere l’A-321 russo che i rapporti riferiscono volasse già a 9.400 metri, dove arrivano solo missili a guida radar. Armi come gli SA-11 che secondo l’inchiesta olandese abbatté l’anno scorso il Boeing malese nei cieli ucraini, e che non sono impiegabili da movimenti di guerriglia perché richiedono ampie capacità tecniche e logistiche e non sono facilmente occultabili. Se l’Airbus fosse stato colpito da armi simili, come gli SA-3 che secondo fonti russe potrebbero essere stati ceduti ai jihadisti del Sinai dai trafficanti libici, di certo i radar egiziani e israeliani ne avrebbero registrato lancio e traiettoria.

Anche l’esame preliminare delle scatole nere sembrerebbe escludere l’ipotesi del missile lasciando come unica pista credibile quella della bomba a bordo, anche se per ora il Cremlino non si sbilancia e il Cairo nega si sia trattato di un attentato criticando la decisione di a Klm, Emirates e Lufthansa di evitare ai loro jet il sorvolo del Sinai. Evidente l’imbarazzo dell’Egitto che su questa vicenda si gioca quel che resta delle entrate in valuta determinate dal turismo, ormai ridotte al lumicino dal Nilo al Mar Rosso.

Già domenica Michael Clarke direttore del think-tank londinese Royal United Services Institute, aveva evidenziato come «il fatto che l’Airbus si sia spezzato in due suggerisce non un collasso meccanico, ma piuttosto un’esplosione a bordo».

Fonti anonime russe citate ieri da alcune agenzie confermavano che sta prendendo piede l’ipotesi di «una falla al sistema di sicurezza dell’aeroporto di Sharm-el-Sheikh» che potrebbe aver permesso di introdurre una bomba sull’A-321. Se è improbabile che un kamikaze carico di esplosivo sia salito a bordo mischiato ai turisti russi, meno difficile è immaginare che qualche jihadista infiltrato tra il personale in servizio all’aeroporto di Sharm abbia potuto piazzare sul velivolo un ordigno innescabile da un timer o da un altimetro.

Del resto la branca egiziana dell’Isis ha rivendicato l’abbattimento senza attribuirlo a un missile né specificarne le cause. Una rivendicazione che potrebbe risultare “d’opportunità”, come quelle dei talebani afghani che per anni si sono attribuiti abbattimenti di velivoli Nato caduti per incidenti. Colpire i russi in Sinai potrebbe però avere un doppio significato per i jihadisti: punire Putin per l’intervento in Siria e colpire l’industria turistica per indebolire il presidente Abdel Fattah al-Sisi che proprio da Mosca sta ricevendo armi e aiuti per combattere il terrorismo.

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